Calendario civile: Cent’anni da Fiume, luogo di memoria del ‘900 italiano
Correttamente Gabriele D’Annunzio politico è identificato con Fiume.
La memoria italiana di Fiume, ha scritto giustamente lo storico Raoul Pupo, nasce nei giorni intorno alla fine della Grande guerra. Fino a quel momento Fiume non è mai entrata nell’agenda politica nazionale. Ma l’Italia, a guerra conclusa, non riesce al tavolo delle trattative a portare a casa il risultato.
In quel clima Gabriele d’Annunzio, forte dell’aura mitica che lo ammanta, nel settembre 1919 compie l’azione simbolica di marciare su Fiume per conquistarla e sollecitare l’italianità della città: un atto che la truppa inviata a contrastarlo non blocca. È l’inizio della «Reggenza del Carnaro» che costruisce il mito della rivincita, ma è anche il termometro delle molte incapacità politiche degli attori della politica in Italia di sapersi misurare con la condizione: nazione che deve pensare con un linguaggio europeo e non più solo nazionalistico
Dunque il 12 settembre 1919.
Teniamola a mente questa data. Perché nei giorni in cui molti riscoprono la nobiltà della marcia su Ronchi, quella data non va disgiunta da un’altra il 13 luglio 1920, una data che non ha mai fatto parte dei libri di storia e che ci riguarda direttamente e da vicino: l’incendio del Narodni Dom a Trieste, il 13 luglio 1920, ovvero il primo atto di discriminazione e di “pulizia etnica” con cui si declina l’idea e il sentimento “prima gli italiani”.
La Kristallnacht, i giorni della furia antiebraica in Germania nel novembre 1938, hanno un precedente e per quanto tutti noi in Italia fino ad oggi abbiamo fatto di tutto per non farci i conti, è proprio, qui, da noi, a Trieste, il 13 luglio 1920 che si è prodotta la prova generale di ciò che 18 anni dopo accadde in Germania.
Non è l’unica cosa di cui è segno quel 12 settembre 1919. Quella data, è anche l’effetto di un sentimento diffuso a cui Gabriele D’Annunzio dà un nome: la «vittoria mutilata». Metafora termine che come primo vettore accredita l’idea che l’Italia sia un Paese punito dalle grandi potenze che costantemente mirerebbero al suo contenimento, o alla frustrazione delle proprie aspirazioni. Espressione che con altre sempr5e di sua produzione (per esempio: “me ne frego”, “Eia Eia, alalà”) fonda non solo il vocabolario dell’italiano del Novecento, ma anche molto del nostro immaginario, di allora e, forse, anche di ora.
Anche per questo, Gabriele D’Annunzio è una figura emblematica del Novecento.
Se oggi dunque vale la pena tonare a riflettere o, preliminarmente, riprendere in mano le parole di Gabriele D’Annunzio, conviene muovere da questa prima condizione.
Prima di tutto dunque il linguaggio. Più precisamente, l’uso del mito politico, sostenuto dall’idea che solo costruendo una nuova lingua politica fondata sulla emozione si poteva produrre processo politico, un aspetto su cui, giustamente, lo storico George L. Mosse nelle pagine dedicate a D’Annunzio nel suo libro L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, ha colto un tratto fondamentale di D’Annunzio.
“Il poeta – osserva Mosse – ottenne un posto significativo nella creazione della politica dell’epoca e diede un contributo in qualche modo nuovo, essenziale e originale all’arte di governare. Il motivo per cui i poeti ormai avevano la possibilità di svolgere anche un ruolo politico, stava nel mutato carattere della politica stessa”.
Il tema è lo sviluppo della “nuova politica”. “Nuova politica”, così come propone George L. Mosse nel suo La nazionalizzazione delle masse, indica un’indagine e un approfondimento sulle forme e i modi della mobilitazione pubblica mettendo al centro l’elemento spettacolare, l’atto pubblico, più che il ragionamento, la riflessione o il testo scritto.
In altre parole: comprendere la natura della politica nell’era delle masse, implica spostare l’analisi dell’indagine storica intorno alle ideologie, concentrando la propria attenzione non solo, comunque non prevalentemente, sulle idee dei gruppi intellettuali, ma sui riti di massa e, dunque, sulla forma delle parole, sulle forme della mobilitazione, sui miti, sugli stereotipi, sui simboli che la politica assume e l’agitazione e la propaganda urlata, orale, prima ancora che scritta, producono. E soprattutto su un luogo della politica che è la piazza e ancora meglio “il balcone”. Luoghi che la parola detta di D’Annunzio si diffonde particolarmente tra i mesi che precedono la guerra e l’intera parabola dell’impresa fiumana.
In quell’esperienza si misurano e si creano parole, espressioni, immagini destinati ad avere una storia lunga nella vicenda italiana, oltre la sua parabola politica. “Me ne frego”, “Eia, eia, eia, alalà!” con cui chiude la maggior parte dei suoi discorsi, non sono solo un espediente emozionale, fanno parte di un modo di intendere e di vivere la politica cui si accompagnano parole tratte dal lessico teologico e religioso (“Pentecoste”, per esempio). La politica diventa esperienza sacrificale.
Poi, una volta chiusa quell’esperienza, significativamente i luoghi della comunicazione saranno sempre più definiti dall’assenza fisica e dal silenzio. Questo sarà il Vittoriale. Ma la politica del Novecento era già, se non tutta, certo molta, nei gesti, nei toni, nella voce e nelle parole andati in scena sul teatro di Fiume, cento anni fa.