Forse nessuno come Victor Serge nelle sue Memorie di un rivoluzionario ha saputo descrivere in poche righe la rottura che si consuma il 22 agosto 1939, nel momento in cui si arriva alla firma del trattato Molotov-Ribbentrop, ovvero il patto tra Russia sovietica e Germania nazista. Riprendo le sue parole:
«Il 22 agosto (1939), Molotov e Ribbentrop firmavano improvvisamente al Cremlino, mentre le missioni militari britannica e francese deliberavano con Vorošilov in un edificio vicino, un patto di non aggressione decennale, che era in modo evidente un patto di aggressione contro la Polonia. Daladier ebbe il torto di sospendere la pubblicazione della stampa comunista: sarebbe stato curioso, dopo aver denunciato la «barbarie fascista», vederla denunciare le «plutocrazie imperialistiche. La stampa comunista illegale adottò subito questo nuovo linguaggio».
Da una parte un mondo politico che si trova complessivamente disorientato dalla doppiezza politica dell’Urss, dall’altra una caduta verticale di quel patto di intesa dell’antifascismo internazionale al cui interno il movimento comunista si era da sempre collocato e, soprattutto, si era dichiarato mettendo al centro – con la tattica del fronte popolare e poi con le scelte maturate a metà degli anni ’30 – la questione della difesa dei regimi democratici.
L’atto del 22 agosto segna una crisi irreversibile proprio in quel campo antifascista che, fino a quel momento, aveva vissuto il movimento comunista come l’alleato solido che nella lotta al fascismo non demorde. Quella scena stravolge convinzioni profonde, lacera amicizie e rapporti di fiducia, ma soprattutto certifica in maniera irreversibile un vero blocco emozionale. La sinistra europea e il mondo comunista non si trovano più associati, non solo rispetto alla difesa della democrazia, ma soprattutto su quella che debba essere la priorità di fronte alla minaccia sia di guerra sia di una possibile egemonia dei totalitarismi di destra nelle realtà governative europee. Per esempio, questo è quello che accade all’interno del socialismo italiano fuoriuscito. Il Psi, fino a quel momento egemonizzato da Pietro Nenni, convinto sostenitore dell’alleanza di fronte popolare, e perciò decisamente favorevole all’alleanza con il Partito comunista, e che ora deve cedere la direzione del partito a coloro che su quell’alleanza e su quella convergenza politica hanno sempre nutrito dubbi (Tasca, Faravelli, Modigliani).
Ma è anche la crisi che attraverso L’internazionale Operaia e Socialista, come testimonia il testo del rapporto sulla situazione politica all’Interno dell’IOS steso dal Segretario Friedrich Adler, nell’estate 1939 dichiara la crisi politica del socialismo internazionale. Per certi aspetti la seconda morte politica, dopo quella già avvenuta nei giorni dello scoppio della Prima guerra mondiale.
Per molti quella ferita politica, anche emozionale, in parte si riconnetterà con il rovesciamento delle alleanze nel 1941 e dunque con il ritorno anche dei comunisti nella lotta al fascismo come nemico principale che poi sfocerà nelle esperienze nazionali delle Resistenze.
Eppure quella crisi dell’agosto 1939, ha un significato molto più profondo e, per certi aspetti, ancora ci riguarda.
Il tema non è il tradimento o il passaggio a stendere accordi col nemico di ieri (una scena che in politica è avvenuta molte volte, anche in tempi recenti), ma rispetto a che cosa sentirsi leali e dunque considerare che valga la pena sacrificarsi, e dunque rinunciare a qualcosa della propria quotidianità in nome del bene collettivo. Molti hanno concentrato lo sguardo, e dunque riversato la propria disapprovazione, su un gesto politico messo in atto da un leader politico. Ha un suo senso, nonché una sua rilevanza. Ma forse a molti anni di distanza quello che principalmente si dovrà valutare è come per molti non avesse rilevanza un altro dato.
In quella scelta dell’Urss nel 1939, ha detto più volte Hobsbawm, i partiti comunisti occidentali riuscirono ad assorbire e a spiegare sulla base di elementi di razionalità, meglio di identità politica. In quella congiuntura, sottolinea lo storico inglese, fu infatti la memoria dell’Union sacrée e del nazionalismo cui si erano votati i partiti della Seconda Internazionale nell’agosto 1914, una causa che rimandava all’atto fondativo stesso dei partiti comunisti, a consentire la tenuta strutturale dei partiti. In breve in quella congiuntura, aderendo al senso politico del Patto russo-tedesco, i partiti comunisti rendevano indirettamente omaggio alla loro scelta di venti anni prima. Dunque, il tema era la questione della verità e della doppiezza: si è disposti a sottoscrivere il patto anche con il proprio avversario radicale, in nome della coerenza, del non venir meno alla critica ai fondamenti politici e culturali del sistema che si vuole abolire o contribuire a distruggere.
Ciò che, invece, non matura è la dimensione dell’interesse generale. Ovvero di saper andare oltre se stessi per vedere un tema di rilevanza pubblica. Ovvero di essere parte dello sviluppo.
Quello stesso meccanismo che nel 1939 esprime il dato di solidarietà (complessivamente non molti se ne andarono dai partiti comunisti) si manifesta apertamente nel 1956, quando di fronte alle rivelazioni del Rapporto Kruscev, l’esodo dai partiti comunisti fu più consistente, tanto da parlare di una crisi che obbligava a ripensarsi. Perché ciò che comunicava il Rapporto Khruscev era appunto la mancanza di verità e dunque la sfera delle convinzioni.
Anche per questo la data del 22 agosto 1939, alla fine, non ha mai dato luogo a una riflessione collettiva, né è entrata nella memoria di chi ruppe il patto antifascista.
È rimasta nella memoria come una mossa scaltra e come la scelta di solitudine di alcuni esponenti e militanti. Nella realtà italiana Leo Valiani, per esempio; in quella francese, Paul Nizan.
È significativo che a riscoprire la parabola politica di Nizan, compresa la sua uscita clamorosa dal Pcf per protestare contro l’appoggio e la difesa del Patto Molotov-Ribbentrop da parte della stragrande maggioranza degli iscritti, sia riproposta molto tempo dopo, nel 1960. Ed è significativo che la voce capace di promuovere la sua figura sia Jean-Paul Sartre (di nuovo allora con una replica del Pcf alquanto supponente e liquidatoria). Fare i conti con quella figura politica e culturale, controversa e inquieta, infatti non voleva dire solo riconsiderare la scena dell’agosto 1939, a prendere in carica la scena della morte di Nizan, morto “in esilio” sulla spiaggia di Dunkerque nel maggio 1940, con le «spalle rivolte al mare», insieme ciò che rimaneva dell’esercito francese e delle truppe inglesi, mentre la maggior parte dei suoi ex-compagni di partito arrivano persino a gioire dell’ingresso delle truppe del Reich a Parigi a fine giugno 1940 e”L’humanité” faceva richiesta pubblica e formale di riprendere le pubblicazioni (a fine giugno 1940) confidando nella benevolenza del governo nazista, in nome della propria “indifferenza” alla caduta della Francia.
Approfondimenti dalla biblioteca di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli