Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Siamo di fronte a una grande trasformazione che determina una rottura dei vecchi equilibri sociali. Non si intuisce, però, quale possa essere l’“agenda” capace di costruire i nuovi punti di tenuta: quali sono i nuovi pilastri per proteggere la società dagli effetti peggiori di quella che chiamiamo “globalizzazione”? Come si pone un argine agli effetti più distruttivi del capitalismo, trovando la formula di un nuovo antidoto che evidentemente non può essere il welfare tradizionalmente inteso?

Affrontare questo nucleo di problemi significa capire come costruire un patto sociale definito non più sulla copertura dai rischi, ma attorno a un’equa e paritaria costruzione di opportunità basata su una visione strategica che sappia fare fronte anche ai divari e alle specificità dei diversi contesti territoriali.

Un patto sociale che ambisca ad avere elementi di possibilità deve necessariamente guardare alle urgenze e ai dilemmi più pressanti che interessano la società per cercare possibili strategie di risposta e politiche innovative. Insomma, come redistribuire ricchezza in modo equo, anche sfruttando i surplus che le nuove tecnologie, il digitale, le nuove forme dell’automazione, se gestite, possono garantire.

Due questioni risultano prioritarie:

  1. Recuperare (nella consapevolezza che lo scenario è profondamente mutato) allo studio e alla conoscenza le grandi questioni che nel passato sono state affrontate dalla politica e in particolare dalle socialdemocrazie, che non sono state completamente risolte e premono ancora con forza, e con effetti potenzialmente deflagranti, sul nostro tempo presente.
  2. Ripensare e ricomporre un’idea di agenda politica europea, vale a dire avere la capacità di trasformare le molle di attivazione individuale in un progetto di comunità, e ancor più in un progetto politico, richiamando l’esperienza offerta dalla storia dei movimenti sociali e politici che nel Novecento hanno provato a generare risposte e alleanze possibili.

 

Se guardiamo in particolare all’esperienza storica delle socialdemocrazie, quale percorso definisce la costruzione di un quaderno di cose da fare?

L’agenda socialdemocratica non è una teoria, ma è una pratica di anticipazione del cambiamento, di presa in carico degli effetti, di riflessione politica, economica, culturale molto attenta a connettere alcune questioni di sviluppo con la possibilità concreta di governare processi.

Il tema è non considerare mai la condizione in cui si vive come irreversibile, ma come modificabile, e soprattutto suscettibile di essere modificata proprio perché si tratta di applicare alla realtà alcuni schemi di azione e una nuova gerarchia di valori che corrono oltre il proprio tempo e che obbligano tutti gli attori a riconsiderare la scala delle proprie priorità.

 

In questo senso due percorsi nel corso del ‘900 hanno definito le priorità di una agenda socialdemocratica.

Quello che possiamo definire processo dal sé al noi. L’idea è che una innovazione si produce se e solo se prendiamo in carico i problemi del nostro tempo oltre la nostra persona. Con persona non intendiamo solo il soggetto individuale fisico ma, come riteneva Marcel Mauss e per certi aspetti Polanyi, e anche Emmanuel Mounier, “persona” non è l’individuo singolo, ma il complesso di relazioni che caratterizzano il vivere sociale. L’idea di sviluppo in questo senso non è mai il raggiungimento del successo o non muove dall’idea del successo, ma muove dal principio stesso che caratterizza quel processo, quando ci si fa carico responsabilmente di costruire gruppo, di essere massa, ovvero di non coniugare salvezza solo con la propria salvezza.

Quella che possiamo definire una volontà di stabilire pratiche di giustizia. Stabilire pratiche di giustizia implica ripensare le forme della vita economica, la definizione di un’agenda di pratiche e di decisioni che intervengono sulla vita concreta e che chiedono contemporaneamente di ripensare la scala gerarchica delle cause, ma anche il senso stesso dell’agire pubblico.

 

Il ruolo degli intellettuali e la storia

Oggi, però, siamo in un momento in cui gli smottamenti complessivi appena ricordati hanno coinvolto la credibilità degli intellettuali europei tutti, minata innanzitutto dalla troppo fragile – e numericamente limitata – resistenza che hanno opposto al liberismo vincente degli anni Novanta.

La modesta, tutto sommato, costruzione teorica di quel pensiero liberista dominante nulla avrebbe potuto, se dall’altra parte non ci fosse stata una sinistra post-ideologica tesa a costruire una left dei “diritti”, totalmente interclassista.

Resta in campo una domanda di storia, di pensiero lungo, che metta in relazione fenomeni dai decorsi non sempre lineari. Una domanda cui quella scelta fintamente post-ideologica non dà soddisfazione. È necessario tornare a occuparsi del “pubblico” – dei temi che abbiamo in comune – senza sottrarsi ai grandi conflitti del presente. Bisogna preoccuparsi di produrre cultura e consapevolezza, e soprattutto processi virtuosi – in una parola, appunto, civili – di ascolto e inclusione nel quadro della frammentazione del tempo presente.

Com’è possibile, oggi, misurarsi di nuovo con la necessità di un’agenda, di un progetto politico ambizioso nella sua volontà di affrontare questioni di lungo periodo e di fondamentale importanza? La storia è chiamata a superare la dimensione consolatoria del ricordo, a stare nel tempo presente contribuendo alla costruzione di una consapevolezza diffusa, generativa di nuove energie progettuali.

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 67452\