Università di Lisbona

Abbiamo ancora bisogno dello Stato? Dalla caduta dei regimi comunisti ad oggi uno degli spettri che si aggira per l’Europa è, in parte, incarnato da questa domanda. Cosa farsene dello Stato nell’era della globalizzazione delle merci e delle persone? Davvero abbiamo bisogno di un’entità territoriale che regoli i rapporti tra le persone? In fondo la fine del socialismo non aveva sancito il dominio inequivocabile del mercato? Di un mercato libero, anzi liberissimo che rompeva le catene dei confini e, quindi, degli Stati. Rompere quelle catene e cancellare i confini, però, faceva saltare uno dei cardini intorno a cui si era sviluppata la narrazione della Nazione. L’idea che ogni nazione dovesse trovare il proprio spazio fisico e politico, oltre che culturale, dentro i confini di uno Stato, e non di imperi plurinazionali, ci ha accompagnato fino alla fine della 1 guerra mondiale. Il nazionalismo è stato una grande molla di liberazione dei popoli, di acquisizione di diritti ma allo stesso tempo è stato il propellente di ideologie razziste e violente, ideologie che, a quanto pare, non sono state ancora sconfitte ma si affacciano con prepotenza in questo scorcio di millennio e che potrebbero condizionare il nostro futuro. Di fronte all’indebolimento dello Stato è la Nazione a riprendere corpo e sostanza, mentre l’elemento regolatore perde efficacia con la migrazione libera di capitali, fissi e variabili, di merci e di persone, la cultura e la narrazione ritrovano centralità. Uno scontro tra creature mitologiche, insomma: Leviathan, elemento regolatore e portatore di leggi sembra scomparire, Behemoth torna a far sentire tutto il suo portato di ancestrale richiamo alla comunità. Negli anni dell’affermazione dello Stato ed in particolare dell’ascesa delle borghesie nazionali sono state le regole leviataniche ad informare i grandi passaggi storici che hanno segnato l’ascesa della borghesia come classe dirigente. La leva del nazionalismo fu sempre presente all’interno delle narrazioni politiche di ogni regime ed in special modo di quelli autoritari ma, almeno fino ad oggi, non era mai stata scollegata, autonoma, dal ragionamento sullo Stato, che, in ultima analisi, rimaneva il luogo deputato non solo alla gestione del potere ma alla riproduzione della cultura dominante. In qualche modo potremmo dire che era Leviathan ad utilizzare Behemoth, la cultura dello Stato manovrava attraverso l’ideologia, la letteratura ed in epoche più recenti alla propaganda, il sentimento nazionalista in una direzione. Questo è un punto nodale, fino al 1989 è esistita una certa preminenza, più o meno accentuata, della norma sulla narrazione, della politica sull’economia intesa come diritto naturale.

Dentro il paradigma che si è aperto dopo la caduta del muro di Berlino gli Stati sono divenuti elementi “conservatori” di fronte allo sganciamento delle borghesie, non in blocco ovviamente, dai propri confini statuali. Le regole spaziali tipiche dello Stato andavano superate in nome della libertà del mercato che non solo non aveva più bisogno di troppe limitazioni ma che prometteva, insieme al benessere economico, di portare democrazia e libertà per tutti. Al di là del giudizio di ognuno su questo specifico punto, credo sia piuttosto chiaro che l’indebolimento degli Stati in favore delle forze del mercato ha agito come potente acceleratore di una crisi di rappresentanza. Se il mio voto non incide sull’economia, e quindi sulla redistribuzione della ricchezza, la sensazione di una certa inutilità dello strumento rappresentativo, ed in ultima istanza della democrazia, trova uno spazio. Questo è vero a qualsiasi latitudine e non è un caso che quei partiti che storicamente informavano la propria ragione d’essere sul primato della politica si siano ritrovati a fronteggiare difficoltà maggiori rispetto a chi da tempo propugna la “morte per fame” dello Stato.

Le elezioni di pochi giorni fa hanno sancito, in Italia come in altri paesi, l’avanzata di una forza, la Lega, di estrema destra, con tratti razzisti, con una scarsa propensione alla solidarietà verso i deboli e con una chiara impostazione ultraliberista in economia. Negli ultimi mesi anche a causa della posizione intransigente del governo di cui il suo leader, Matteo Salvini, è ministro dell’Interno, rispetto alle politiche migratorie, da più parti la Lega è stata dipinta come un partito che ricorderebbe il fascismo storico. La narrazione violenta, spesso volgare e volgarizzante, di Salvini rispetto alle minoranze, agli strumenti democratici, il suo disprezzo nei confronti delle opposizioni e la sua idea di una cittadinanza declinata in modo etnico, hanno senza ombra di dubbio avvalorato questa tesi. La sua vicinanza con formazioni apertamente neofasciste ed il passato di alcuni dirigenti leghisti, anche. Siamo, quindi, di fronte ad una riedizione del fascismo? No, io credo di no per almeno tre ordini di motivi. Il primo e più immediatamente visibile è la mancanza del comunismo; non c’è bisogno di essere d’accordo con Nolte per rilevare che la forte carica anticomunista è stato uno dei cardini del fascismo storico e, in ultima analisi, una delle ragioni per cui pezzi importanti di borghesie industriali in diversi paesi, erano ancora borghesie nazionali, si schierarono con i regimi fascisti. La seconda ragione è che il fascismo fu un regime. Non possiamo pensare, ad oggi, che Salvini stia per instaurare un regime dittatoriale in Italia. È possibile affermare che vi sia dentro la Lega e nelle modalità di Salvini un retaggio di cultura autoritaria? Assolutamente sì ma i regimi sono altra cosa. Il terzo punto è legato al primato di Behemot su Leviathan, ed alla cultura dello Stato: il fascismo ha il culto dello Stato, del monopolio della violenza che esercita come partito dotato di organizzazioni paramilitari prima e come regime poi. Il rapporto della Lega con la violenza agita è quello di un’esternalizzazione, non c’è primato della politica, non c’è religione dello Stato. Ve lo immaginate Mussolini, od un qualsiasi altro dittatore, a proporre una legge che sancisce la fine del monopolio dello Stato sulla violenza e dice ai singoli cittadini: armatevi e difendetevi da soli? Salvini ha in mente una democrazia autoritaria su base etnica all’interno della quale l’aspetto razziale serve a far esplodere la narrazione nazionalista in assenza di Stato. La Lega, da questo punto di vista, segue una religione dell’individuo che si crea da solo, che rompe il patto sociale con i suoi simili e che dichiara guerra allo Stato; nasce sulla schiera dei grandi rifiuti fiscali in un paese dalla lunga tradizione di evasione fiscale soprattutto della piccola borghesia del Nord. Nasce come forza antistatale ed anche per questo si trova straordinariamente bene nell’interpretare questa fase storica. Perché averne paura, dunque? Per almeno due ragioni importanti: la prima è che, come ho detto, ci sono elementi di natura autoritaria dentro il discorso della Lega primo fra tutti il razzismo ed il disprezzo per l’avversario politico additato spesso come nemico. La seconda ragione è che scatenare le forze del comunitarismo nazionalista in assenza di una classe dirigente nazionale, la quale da anni si pasce in altri lidi di produzione e riproduzione del proprio denaro, è rischioso. È rischioso perché dopo aver creato il nemico, gli oppositori politici e gli immigrati, lasciare a briglia sciolta cittadini armati in cerca di vendetta per le proprie miserie personali e sociali, è un esperimento che può facilmente scappare di mano. La mediazione della norma e del contratto è saltata in nome del liberismo e l’unica arma rimasta nell’arsenale politico è la narrazione mistica e mitologica. Non è un caso se Salvini nelle ultime settimane si rifaccia sempre di più a rituali identitari come i simboli ed il linguaggio religioso. Una volta uccisa la norma e la sua fonte prima, la comunità è libera di riaggregarsi intorno a simboli e pratiche arcaiche che ridanno confini netti, che ricostruiscono non l’avversario ma l’infedele, il non partecipe al rito collettivo che unisce la comunità pura, il nemico assoluto.

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