“Il risultato maggiore della conquista dell’uomo della Luna – scriveva il giornalista James Reston sul New York Times, il 21 luglio 1969 – non è solo che è stata fatta la storia, ma che ha reso più ampia l’idea di ciò che la storia dovrebbe essere”. Nella notte fra il 20 e 21 luglio 1969 si era avverato il sogno di John Fitzgerald Kennedy, colui che più di tutti aveva individuato nella conquista dello spazio il raggiungimento della nuova frontiera, la realizzazione della missione americana, la versione novecentesca del destino manifesto e dell’eccezionalità dell’esperienza statunitense. La conquista della Luna era l’esito di uno sforzo pluridecennale che doveva risolvere un dilemma geopolitico – la competizione tecnologica nei riguardi dell’Unione Sovietica, – ma doveva anche avere l’obiettivo di rilanciare la capacità americana di plasmare “i cuori e le menti”, e veicolare valori universalistici in cui l’umanità tutta avrebbe potuto riconoscersi. Si sanava così quella ferita inferta nel 1957 con il lancio sovietico dello Sputnik e riaperta nel marzo 1961 con l’impresa di Yuri Gagarin, ancora una volta un sovietico, il primo uomo ad andare nello spazio. Già nel suo discorso inaugurale, Kennedy affidava a una nuova generazione di americani il compito di “esplorare le stelle”. Nel maggio del 1961, Kennedy propose ai deputati e ai senatori riuniti in seduta congiunta uno stanziamento imponente di fondi destinato alla ricerca spaziale, “questa nuova frontiera dell’avventura umana”. Non era semplicemente “a race”, ma una battaglia degli “uomini liberi”, da vincere “prima della fine di questo decennio”. L’anno successivo, Kennedy precisò ulteriormente l’obiettivo. A Houston, al Rice University Stadium, di fronte a una platea di 40.000 persone, Kennedy annunciò l’impresa, sottolineando che occorreva essere primi. Le sue celebri parole – “abbiamo deciso di andare sulla luna in questo decennio … non perché sia semplice, ma perché è un’impresa ardua” – richiamavano, ancora una volta, l’idea dell’America interprete del futuro, il paese che incarnava il progresso verso destini lontani, la nazione paladina della libertà che aveva la responsabilità di portare avanti obiettivi grandiosi non per se stessa, ma per l’umanità intera. Era questa l’America che aveva plasmato il Novecento e lo aveva reso “il secolo americano”.
Nel 1969 le certezze americane erano meno granitiche e il sogno americano si era appannato sotto i colpi inferti dalla disastrosa guerra in Vietnam, dal sorgere di conflitti razziali, dalla rivolta generazionale dei figli e delle figlie contro il potere patriarcale e la cappa soffocante di un conformismo sociale e intellettuale. Nel 1969 non mancarono commenti critici di chi, come lo scienziato sociale David Riesman, l’intellettuale e teologo Reinhold Niebuhr o l’urbanista e sociologo Lewis Mumford, avvertiva del disagio di un’America che sembrava aver fatto prevalere le ragioni della tecnica rispetto a quella degli ideali, delle esigenze del complesso militare-industriale alle politiche contro la disuguaglianza, la povertà e le discriminazioni. L’idea di un futuro prospero e pacifico si stava dissolvendo di fronte all’esplosione della rabbia dei neri nei ghetti delle città del nord, alla rivolta femminista e del movimento gay (l’esplosione di Stonewall, a New York era stata alla fine di giugno), alla crisi economica e sociale, alla guerra in Vietnam che aveva trasformato l’immagine statunitense da paese che combatteva guerre giuste a potenza imperialista. Era l’avvio della disunione dell’America, dell’emergere di una polarizzazione politica frutto di una progressiva radicalizzazione dello scontro politico e sociale, delle fratture fra le molte Americhe.
Cinquant’anni da quella notte che vide il mondo incollato alla televisione per assistere a un evento epocale, l’America ritorna con apparente nostalgia a ciò che il filtro della memoria colora di rosa, a un’America apparentemente felice e prospera. Trump ha cercato di capitalizzare quella memoria selettiva, provando a rilanciare l’idea della missione spaziale come simbolo del “Make America Great Again”. Pochi mesi dopo il suo insediamento, Trump ha firmato una legge che riaffermava la priorità di un programma spaziale che questa volta avrebbe dovuto avere come obiettivo la conquista di Marte entro il 2030. Tuttavia, un mese dopo ha chiesto ai responsabili della Nasa se vi era la possibilità che l’obiettivo venisse raggiunto entro la fine del suo primo mandato. Alle reiterate risposte negative della Nasa, Trump ha dovuto venire a patti con la realtà, accettando di investire sulla ripresa delle missioni umane sulla Luna. Un obiettivo raccomandato, all’unanimità, dal nuovo National Space Council presieduto dal vicepresidente Mike Pence nel corso del suo primo incontro, nell’ottobre 2017.
Il 7 giugno 2019 un twitter del presidente ha modificato di nuovo l’agenda (o presunta tale): la Nasa, ha scritto Trump, con tutti i soldi che sono stati stanziati, non dovrebbe parlare di andare di nuovo sulla Luna – cosa che era già stata fatta 50 anni fa – ma avere un obiettivo molto più grande, quello di conquistare Marte.
Le ondivaghe affermazioni di Trump, il cambio continuo delle priorità dimostrano eloquentemente la distanza da quel lontano 1969. Non solo il mondo è radicalmente mutato, per certi versi frammentato e più disordinato di cinquant’anni fa: gli Stati Uniti devono fare i conti con competitors nuovi o “rinnovati”, come nel caso della Russia, l’alleanza atlantica sembra più una sopravvivenza della guerra fredda che non la realtà dei contemporanei assetti geopolitici, la corsa allo spazio non è più prerogativa delle due superpotenze, ma ambiscono a trovare il loro posto giganti economici come la Cina, potenze industriali come il Giappone e la Corea del Sud, naturalmente l’Europa con la European Space Agency, ma anche paesi come l’India o gli Emirati Arabi.
Le parole di Trump, a differenza di quelle Kennedy, fanno riferimento non a una “visione”, non richiamano a un’idea di futuro e di progresso, ma, semmai, a obiettivi di pura competizione personale. Naturalmente, l’ambizione di Kennedy si fondava su specifiche, concrete esigenze geopolitiche, imporsi nella battaglia tecnologica contro l’Unione sovietica perché questo significava vincere la battaglia per le idee. Non casualmente nella retorica di Kennedy appare il concetto di frontiera, mito e simbolo della lotta immane e della predestinazione dell’America nella conquista della civiltà. La frontiera richiamava la battaglia sistemica fra civiltà e barbarie, fra bene e male, fra libertà e tirannia.
L’America di Trump, ossessivamente incentrata sulla necessità di “rendere l’America di nuovo grande”, paradossalmente guarda costantemente al passato: è una visione conservativa ed escludente che non riesce a farsi visione universale. Dal punto di vista politico, poi, con la decisione dello scorso febbraio 2019, di firmare la Space Policy Directive-4 che crea una nuova United States Space Force come branca del sistema militare, la corsa allo spazio viene completamente inserita all’interno del recinto dell’apparato di sicurezza militare, mentre era stata fino a quel momento appannaggio dell’apparato civile. Una misura che accresce il processo di “militarizzazione” e contribuisce a considerare gli Stati Uniti come fortezza da difendere.
Gli Stati Uniti possono godere ancora dei vantaggi di una leadership indiscussa dal punto di vista tecnologico e militare. La nuova frontiera, però, è quella della riconquista di una leadership politica, della capacità di rendere di nuovo il suo modello politico e sociale seduttivo. Difficile che un presidente divisivo come Trump sia in grado di ridare smalto al soft power statunitense che ci appare sempre più “the dark side of the moon”.
credits: ‘Is anyone out there’, Alan Bean