Narra il mito che Prometeo rubò il fuoco agli dei per farne dono agli uomini. È grazie al fuoco che ha avuto così inizio l’evoluzione umana, la nascita delle arti e della civiltà, la scoperta e la trasmissione del grande segreto: la trasformazione del materiale grezzo in oro. Questo gesto, però, non fu privo di conseguenze. Prometeo venne punito duramente da Zeus: incatenato a una montagna del Caucaso un’aquila gli divorava di giorno il fegato che di notte ricresceva con infinita pena e tormento.
Un mito affascinante quello di Prometeo, capace di dire la natura terrestre e celeste dell’uomo, l’ardire del suo sguardo e della sua azione e, al contempo, in grado di mostrare risvolti e ombre del progresso e della conoscenza di sé. Il fuoco, infatti, scalda, illumina, trasforma, ma anche brucia, acceca, distrugge. Un esempio evidente, oggi, è la tecnologia che scoppia tra le mani: una tecnologia che accelera le operazioni, accorcia le distanze, fornisce risposte in tempo zero e, al contempo, crea voragini di solitudini in corpi assiepati in uno stesso spazio, assopisce l’istinto a favore di risposte della rete, ma soprattutto inibisce il coraggio e il rispetto, la curiosità e la fiducia di un incontro in carne e ossa a favore di racconti e immagini prese a prestito.
Nel 1960 Roy Lewis ha con intelligenza e ironia nuovamente ritessuto il potere della fiamma – fatto di accensione ma anche di sua custodia – in The Evolution Man (ital.: Il più grande uomo scimmia del Pleistocene). Qui è Edward a fare le veci di Prometeo (o di un novello Leonardo). Grazie all’introduzione della posizione eretta e all’uso del fuoco, alla costruzione di armi e alla diffusione dell’esogamia, il protagonista del romanzo è capace di guardare e far guardare avanti una comunità di uomini primitivi dell’Africa centrale. Fino a quando i figli – riconoscendo il genio del padre ma volendo utilizzare i progressi da lui apportati a vantaggio della loro sola tribù – non cercano di ucciderlo con le stesse opere da lui create. Il fuoco sfugge dalle mani e diventa strumento per sopraffare anziché liberare.
A distanza di più di cinquant’anni questa storia conserva intatta la sua capacità di risuonare nel presente. Abbiamo scoperto, creato e sviluppato e ora ci ritroviamo saturati, divisi e sabotati da quegli stessi progressi di civiltà così ingegnosamente e faticosamente conquistati. Abbiamo fatto scomparire dalla vista corazze e armi, muri e confini e le ritroviamo ora calcificate all’interno: in credenze e posture, linguaggi e abitudini; più sottili, forse, ma non meno violenti e privi di effetti. Abbiamo abusato dell’abbondanza di risorse, materiche e spirituali, e ci troviamo ora (apparentemente) privi di esse oppure da esse ingolfati, in uno stato di emergenza che chiede un’inversione di rotta. Ma come farlo? Ripartendo proprio dal corpo, anzi, dal suo fegato.
Il fegato nella filosofia e medicina tradizionale cinese corrisponde al legno. Questo elemento in armonia simboleggia sviluppo, crescita, ascensione: attività elastica e diversificata. In disequilibrio segnala tensione, contrazione, trafittura. Proprio come accadde a Prometeo. Proprio come capita a ciascuno di noi. Ogni volta che non ci diamo tempo e spazio per ascoltare e assimilare quanta energia siamo in grado di reggere o per liberarci delle tossine e dei carichi in eccesso. Ogni volta che il potere del fuoco e i suoi fumi ci annebbiano la vista, illudendoci di esserne i detentori anziché riconoscerci come suoi semplici, seppur preziosi, custodi e trasmettitori. È lì che scatta la paura di perderlo o la rabbia e l’invidia per chi crediamo ne abbia più di noi. È lì che il fuoco sfugge al controllo e il fegato duole. Eppure una via d’uscita c’è ed è ancora il mito a ricordarla.
Eracle liberò Prometeo. Il celebre semidio uccise l’aquila e spezzò le catene. Con la forza? Non solo. L’eroe seppe far uso anche di astuzia e fede. Come accadde con le stalle di Augia che ripulì in un baleno deviando il corso di due fiumi. Allora non gli fu riconosciuta l’impresa perché raggiunse il suo scopo senza fatica. Oggi protraiamo l’ingiustizia ricordando del figlio di Zeus e Alcmena solo le azioni di forza. È tempo, però, di recuperare i rimossi della storia, di abbinare al fuoco l’acqua, di riequilibrare – per riprendere la sapienza orientale – l’elemento yang e quello yin: il principio maschile che agisce e dona con quello femminile che accoglie e trasforma. È giunta l’ora di passare dalla diagnosi delle malattie della nostra civiltà alla loro guarigione, ripartendo proprio dalla cura e pulizia del corpo – fegato o stalla che dir si voglia – del nostro tempio sacro, di quella “grande ragione” che, come già intuì Nietzsche, supera infinitamente in saggezza la piccola mente umana.
Prometeo porta il fuoco al genere umano – Dettaglio tratto da un’opera di Friedrich Heinrich Füger, 1817
La danza può suggerire una via. La danza intesa come pratica che trova il suo “fuoco” nel corpo in presenza prima ancora che in movimento. La danza come consapevolezza dello spazio e del tempo in cui ogni istante siamo immersi e che modelliamo con ogni nostro più piccolo gesto e intenzione. La danza come relazione tra campi di forze: tra visibile e invisibile, tra contraction e release, tra yin e yang. La danza come celebrazione della vita in ogni sua sfumatura. Qualcosa, dunque, di molto distante dalle forme che la cultura occidentale ha impresso come modello di riferimento nell’immaginario collettivo. Qualcosa, invece, di molto più semplice e originario, vicino all’incanto di un bambino danzante, in osservazione ed esplorazione del mondo o a un gruppo eterogeneo di individui che festeggia insieme la nascita e la morte – o ogni cambio di stato, per dirla con Victor Turner – dando espressione con corpo e voce alle emozioni: per liberarle e ricomporle, insieme. Un atto extra-ordinario di cura e attenzione per sé e l’altro attraverso la creatività del corpo in movimento. Un atto che coltivato in tempi e spazi prima circoscritti diventa poi nuova linfa con cui irrorare la quotidianità delle relazioni e dell’interscambio col mondo.
La danza, dunque, non solo e non tanto come disciplina artistica o terapeutica, specifica e a sé stante, ma come postura e stile di vita. La danza come precipitazione nel corpo: nell’ascolto dei suoi indizi e messaggi, nell’accoglienza dei suoi pieni e dei suoi vuoti, nella capacità di stare e in quella di spostare. La danza come meditazione in movimento: come esperienza di respiro profondo e consapevole attraverso cui aprire varchi e spostare confini, senza sforzo, non opponendo resistenza alla gravità e al naturale flusso delle cose. La danza come pratica di semplicità, di spoliazione da ruoli, personaggi e maschere per ritrovare un grado zero: punto di contatto e integrazione con l’altro da sé. La danza come festa e magia dell’essere uno nella differenza, di riconoscersi in un flusso più grande di cui si è parte attiva, unica e insostituibile, capace di incidere e trasformare l’intero sistema. Fuori da intellettualismi e rendicontazioni. Fisicamente e concretamente. Aprendosi al mistero.
Trasformare danzando? Si può. A patto di accorgersi e fare esperienza di come fuoco e acqua non siano opposti ma due voci e confini di una medesima storia. Da vivere con ogni grammo e centimetro di sé.