photocredits: Sebastian Bolesch
Ti dicono “guardati le spalle” e avverti fisicamente l’urgenza di stare in allerta. Ti dicono “guardati le spalle” e pensi a pericoli imprevisti, attacchi a sorpresa, tradimenti inattesi. Ti dicono “guardati le spalle” e piombi nella paranoia del sospetto.
Sarà che la vista è da sempre, nella cultura occidentale, il senso più sviluppato, quello a cui maggiormente ci affidiamo, quello che trasforma l’esperienza in conoscenza. Se teniamo lo sguardo puntato in avanti, non vediamo ciò che accade alle nostre spalle e quel non sapere è sinistro: ci consegna alla nostra impotenza. È percezione angosciante della nostra vulnerabilità.
Ma siamo certi che la circospezione esaurisca il campo semantico del “guardarsi le spalle”? Non c’è forse un significato che rimanda al gesto del voltarsi per guardare quel che si è lasciato dietro di sé? Un gesto che non è diffidenza, ma previdenza?
Nell’iconografia tardo medievale e poi nella pittura e nella scultura dell’arte rinascimentale italiana, la prudenza trova spesso una rappresentazione allegorica in una donna con uno specchio. Allo specchio si attribuisce un duplice valore: l’importanza della conoscenza di sé in quanto condizione preliminare di ogni condotta etica e insieme la possibilità di veder riflesso quel che accade alle proprie spalle.
Non è solo una questione di spazio, ma anche di tempo. Il gesto di voltarsi implica pensare alla durata, al fatto che la propria azione perdura, lasciando segni, a volte indelebili.
C’è un passaggio in cui Adorno, nelle sue Meditazioni sulla vita offesa, scrive:
la tecnicizzazione rende le mosse brutali e precise, e così gli uomini. Elimina dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo. Li sottopone alle esigenze spietate, vorrei dire astoriche delle cose. Così si disimpara a chiudere piano, con cautela e pur saldamente una porta. Quelle delle auto e dei frigidaires vanno sbattute con forza, altre hanno la tendenza a scattare da sole e inducono chi entra alla villania di non guardare dietro di sé, di non custodire l’interno che l’accoglie.
Di certo, la nostra, è l’epoca dell’istantaneità, che ambisce ad annullare l’esperienza del differimento e pretende che tutto sia adempiuto, raggiunto, compiuto in quel “tempo reale”, destoricizzato e dispotico, che si è preso tutto la scena. Un desiderio di immediatezza che interessa tutti i campi: dalla smania di vedere le doppie spunte blu su Whatsapp, ai ritmi serrati della delivery economy e del fast capitalism.
In un tempo in cui ogni giorno è un nuovo giorno, in cui si consumano merci, paesaggi, relazioni, il gesto del “guardarsi le spalle” può essere un modo per non arrendersi alle “esigenze spietate” e alla “villania” di cui parlava Adorno. Una reazione all’insensibilità di chi non si cura di quel che gli accade intorno, di chi disconosce, trascura, ignora quella perturbazione che ogni nostra traversata nel mondo comporta.
Guardarsi le spalle è, in fondo, un atto di responsabilità. Un atto di cura che rivolgiamo a chi verrà dopo di noi. E oggi più che mai siamo tenuti a considerare quel che le nostre scelte, i nostri stili di vita, i nostri modelli di produzione e consumo determinano. Sappiamo che abbiamo poco tempo per salvare il pianeta, una manciata di anni per dare alle generazioni future la stessa chance di guardare lontano davanti sé, come pretendiamo di fare noi oggi, malgrado un orizzonte che appare sempre più stretto. Ma pare che, pur avendo a disposizione dati, ricerche, studi dettagliati e attendibili, quel sapere non si traduca in un sentire tanto radicale e profondo da farsi azione.
Sigmund Freud forse ci avrebbe detto che il nostro problema si chiama “diniego”: un contenuto razionalmente inteso non riesce a raggiungere la sfera emotiva. Elena Pulcini, ragionando di cura del mondo, cerca di interpretare il fenomeno alla luce delle tesi di Günter Anders sulla discrasia tra conoscere e sentire che caratterizza l’uomo contemporaneo: la nostra capacità di fare, di conoscere, di produrre supera di gran lunga la nostra capacità di prevederne le conseguenze e di percepirne emotivamente gli esiti. Le nostre emozioni e la nostra immaginazione non sono all’altezza della nostra illimitata potenza. Anders ritiene che vi sia una generale indisponibilità alla paura causata proprio da un deficit emotivo dell’immaginazione: seppur impegnati in grandiose imprese conoscitive, ci troviamo a non avere consapevolezza emotiva delle ricadute delle nostre azioni.
Se è vero che oggi siamo esseri insensibili, dobbiamo capire come riaverci da questo torpore delle emozioni, che fa tutt’uno con una progressiva atrofia del nostro rapporto estetico e sensibile col mondo. Come ribellarci all’estinzione, per citare il movimento ambientalista, se anche in questi giorni roventi di caldo africano, troviamo riparo in ambienti protetti rinfrescati da condizionatori? Come sentire la durezza della realtà, i suoi spigoli, la sua corrente che travolge e sconquassa, se della realtà facciamo esperienza, per lo più, attraverso schermi che levigano e – appunto – schermano, riparano, attenuano?
No, non è un’invettiva tecnofobica: viva gli smartphone, viva l’aria condizionata! Resta però la domanda: come sentire – col corpo, coi sensi – il mondo, come ridestare rimpinguare le nostre risorse emotive?
Voices&Borders ©Claudia Pajewsky
Non ci sono ricette, ma l’arte, il cinema, la musica, la danza possono essere annoverati tra gli antidoti capaci di farci riavere dalla sedazione: dispositivi di interazione e catalizzatori di immaginazione che costringono il soggetto – narcisisticamente preso da sé – a farsi da parte. La bellezza, diceva Simone Weil, ci obbliga ad “abbandonare la nostra immaginaria posizione di centralità”. Gesti, suoni, immagini spalancano nuovi rapporti di senso e di sensi con l’ambiente circostante; ci mettono in contatto con quel fuori campo che spesso non vediamo e trascuriamo. Mettono in tensione fibre e muscoli, costringendoci a sentire – e dunque a mettere nel conto – non solo quel che lucidamente vediamo e traduciamo in concetto, ma anche quel che ci accade intorno, alle spalle, in quei punti ciechi che magari sfuggono alla vista, ma prendono allo stomaco.
Ci servono inciampi e spintoni per renderci disponibili alla paura. E ci serve essere disposti all’angoscia, sempre per citare Anders, se vogliamo cambiare rotta. Altrimenti saranno solo trascurabili e velleitarie petizioni di principio. Solo così potremmo guardarci le spalle e sentire che abbiamo lasciato dietro di noi un mondo più degno.
Guarda l’intervista a Elena Pulcini, Crisi ecologia e etica della cura: