Scrittore

28 giugno 1969, notte fonda.

La polizia è barricata all’interno dello “Stonewall Inn”, bar newyorkese in Christopher Street, assediata da centinaia di persone – nel corso della notte, diventeranno duemila. La sera seguente migliaia di omosessuali, attirati dalla notizia degli scontri che proseguono per le notti successive, invadono l’area del bar di proprietà di Tony Lauria del clan dei Genovese: l’omosessualità è illegale, ed è per questa ragione che i membri della comunità Lgbtq si trovano nei bar gestiti dalla mafia. Dalla polizia si devono nascondere e si devono proteggere, come se fossero dei pericolosi criminali. Erano altri tempi?

Non è la prima volta che la comunità Lgbtq reagisce alle discriminazioni, ai soprusi e alle violenze della polizia, ma i riots di Stonewall segneranno un punto di non ritorno, saranno una svolta, verranno «assunti simbolicamente come atto di nascita del movimento» – ha sintetizzato Nicola Riva – per il quale «i progressi fatti dal 1969 a oggi sono impressionanti»1. Il “Christopher Street Day”, la commemorazione di quella battaglia urbana, l’anno successivo, verrà ricordato come il primo Gay Pride. Il resto è cronaca – o forse bisognerebbe dire storia. Inscritta nelle Sex Revolutions e nel difficile corso per la rivendicazione e il conseguimento dei diritti civili, politici e sociali del secolo scorso, anche la lotta contro le discriminazioni e per l’uguaglianza condotta dal movimento Lgbtq negli ultimi cinquant’anni ha portato a conquiste che all’epoca non era facile immaginare: persino la stessa polizia di New York, cinquant’anni dopo, ha chiesto scusa.


Una folla tenta di impedire arresti di polizia al di fuori dello Stonewall Inn nel Greenwich Village nel giugno 1969.
Fotografia: Daily News / New York Daily News


 

Lo storico Giovanni Dall’Orto ha di recente raccontato come la scintilla dei moti di Stonewall fu, con ogni probabilità, una prima colluttazione che coinvolse una donna lesbica in abiti maschili (Storme DeLarverie) che, in un secondo momento, riuscì a divincolarsi e incitò i presenti a reagire – un’altra ricostruzione vedrebbe come evento scatenante il lancio di un oggetto (forse una bottiglia) da parte della transgender Sylvia Rivera, “seconda generazione” di origine latinoamericana e quindi appartenente a un’altra comunità a sua volta discriminata. Al di là delle molte versioni di quello che accadde in seguito, la rivolta modificò in maniera inequivocabile l’immagine che il mondo aveva della comunità Lgbtq, e che quest’ultima aveva di se stessa – è nota la definizione che ne diede il poeta Allen Ginsberg, dicendo che in quei giorni gli omosessuali persero «quell’aspetto ferito» (that wounded look) che secondo lui li contraddistingueva.

Cosa hanno da insegnarci, mezzo secolo più tardi, i moti di Stonewall?

Nel best-seller What is History?, saggio edito all’inizio dello stesso decennio – e arrivato in Italia con il titolo Sei lezioni sulla storia – lo storico britannico Edward H. Carr ci ricordava che «ogni discussione storica ruota attorno al problema della priorità delle cause»2, e anche il suo collega francese Marc Bloch (del cui assassinio ricorre in questi giorni l’anniversario), quando in Europa infuriava la seconda guerra mondiale, aveva dedicato pagine fondamentali al tema di quel «bisogno istintivo del nostro intelletto» che è «lo stabilire rapporti di causa ed effetto». Naturalmente lo stesso Bloch ci metteva in guardia sul fatto che opporre nettamente una “causa” alle “condizioni” sia arbitrario3, ma è un dato di fatto che se non ci fosse stato quel moto di ribellione, seguito da quello di decine, poi di centinaia e infine di migliaia di altre persone, omosessuali e non, noi non saremmo qua a celebrare i cinquant’anni dei moti di Stonewall, e forse neanche la nascita del Pride e i progressi impressionanti che abbiamo visto susseguirsi a cavallo tra la fine del Novecento e i primi anni di questo millennio. È altrettanto evidente che la miscela esplosiva fosse lì, ma la scintilla no. La scintilla, ci ricorda ancora Bloch, è quella che «avrebbe potuto non scoccare mai»4. E che per fortuna, in questo caso, avviò l’effetto domino.

Quel primo spintone, quel primo cazzotto, quell’oggetto scagliato, quel «basta!» – quel no more! – che invase le strade del Greenwich Village sarebbe diventato, nel decennio successivo, l’arcobaleno che (inizialmente di otto colori e poi di sei) avrebbe rappresentato, in poche parole, il diritto alla felicità e all’autodeterminazione delle persone Lgbtq e di ogni individualità. Eppure, ripensando alla notte di cinque decenni fa che cominciò con una colluttazione e proseguì con lanci di monete e di bottiglie che non si contavano più, osservando il fermo immagine di quella notte dove i furgoni della polizia furono ribaltati e dove volavano bidoni dell’immondizia e parchimetri, verrebbe da ricordare che la svolta nei rapporti di forza, quell’atto di liberazione così dirompente, fu un atto fisico. D’altra parte era stampato sui libretti rossi che venivano agitati nelle piazze di mezzo mondo, e sarebbe stato scritto a caratteri cubitali nell’incipit di Giù la testa di Sergio Leone, uscito nelle sale nel 1971: «La rivoluzione non è un pranzo di gala».

Quel primo spintone, quel primo cazzotto, quell’oggetto scagliato fu un atto indubitabilmente giusto, per noi che lo guardiamo con il senno di poi. Con le dovute proporzioni, fu più resistenza armata che resistenza civile che è sempre, in ogni lotta senza quartiere, un humus indispensabile perché la scintilla si trasformi, in qualche modo, in un arcobaleno – perché la rivolta diventi Liberazione. Ma quell’atto ci fu, e fu l’inizio di un uragano che ha visto grandi onde innalzarsi verso il cielo e tremendi momenti di risacca. Come quello che stiamo vivendo. Le unioni civili, che compiono tre anni, non sono parificate e non permettono l’adozione di figli, e continua a mancare una legge contro l’omofobia, che dilaga – i diritti negati procedono sempre di pari passo con pericolose derive della società.

La discriminazione basata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, in Italia e nel mondo, è ancora una drammatica emergenza, in leggero calo solo perché cannibalizzata dalle altre forme di odio, virtuale e reale, contro donne, rom e stranieri in particolare. Ma, come ha sottolineato l’osservatorio sui diritti Vox, il numero di messaggi d’odio contro le persone Lgbtq si impenna quando queste alzano la testa o quando qualche caso di cronaca sposta l’attenzione dei branchi di haters su di loro. E lì scatta la caccia, come nella vita tridimensionale. E infatti la realtà concreta, nel nostro contesto prima di tutto, è agghiacciante: 187 episodi di omotransfobia negli ultimi mesi, 70% degli studenti italiani gay che subiscono atti di bullismo a scuola, violenze domestiche ogni giorno, Italia al trentacinquesimo posto in Europa nella classifica che certifica il rispetto e la tutela dei diritti Lgbtq. E parole come “frocio” (e i suoi infiniti sinomini), “leccafiche” e “pervertito/a” che sono ancora insulti presenti in ogni quotidianità. In un paese che ha svoltato bruscamente a destra e in cui le forze di governo machiste e intolleranti fin dagli esordi (in testa sempre Salvini contro i «fritti misti»: molto divertente) flirtano con il neofascismo e in cui hanno esponenti esplicitamente omofobi come il ministro Lorenzo Fontana5, dopo un «terribile 2018» (gay.it) ci si aspetta un 2019 non da meno. E d’altra parte le botte – a Roma come a Bologna, come a Pescara  – sono letteralmente all’ordine del giorno.

C’è ancora molto, moltissimo da fare. Finché ci saranno diritti negati e finché ci sarà anche solo una persona che torna a casa umiliata o ferita per ciò che è, quell’arcobaleno sarà ancora un obiettivo a cui tendere. Ed è per questo fondamentale ricordare sempre quella scintilla del 28 giugno 1969, quella scintilla che grida a gran voce che tutte e tutti noi abbiamo sempre, anche e soprattutto nel fondo della notte, il diritto e il dovere di resistere.

 


1  Nicola Riva, “Tra pari libertà e gaia libertà. La politica dell’orgoglio LGBT”, pp. 52-3, in Enrico Biale e Corrado Fumagalli (a cura di), Per cosa lottare. Le frontiere del progressismo (Fondazione Feltrinelli, Milano 2019).

2 Edward H. Carr, Sei lezioni sulla storia (a cura di R. W. Davies), Einaudi, Torino 2000 p. 97 (ed or. What is History?, Macmillan, London 1961).

3  Cfr. Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 2009, pp. 138-140 (ed. or. Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, Armand Colin, Paris 1993 [I ed. 1949]).

4Cfr. Ibid., pp. 165-6 (sezione I fogli di appunti della redazione definitiva, pp. 145 e sgg.)

Per una sintesi cfr. Giovanni Tizian, Stefano Vergine, Il libro nero della Lega, Laterza, Bari-Roma 2019, in particolare alle pp. 149-171

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