Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Mi rivolto, dunque siamo

 

In questa frase di Albert Camus si condensa lo spirito che ha animato i “Quaderni piacentini”, periodico sorto nel 1962, che in quegli anni ha rappresentato il laboratorio ideologico dell’estrema sinistra italiana; non a caso esso nasce come «foglio di battaglia», figlio di una stagione, di un modo di pensare la politica, in cui è l’intensità delle passioni la prima responsabile dell’espressione del dissenso verso la società.

Proponiamo di seguito un estratto della lunga intervista del giugno-luglio 1969 a Vittorio Rieser, intellettuale militante, già docente di economia politica presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, il quale, sollecitato a confrontarsi sulla questione relativa alla socializzazione delle lotte, contribuisce a definirne i contorni, indicando gli strati sociali – studenti, tecnici, impiegati – a cui risulta necessario rivolgersi per incrementare il grado d’efficacia delle lotte condotte in fabbrica.


Uno dei temi di fondo del dibattito portato avanti in questo periodo dal M [movimento, ndr] è quello, definito approssimativamente, della «socializzazione delle lotte», ad es. a proposito del lavoro con gli immigrati fuori dalla fabbrica, ecc.


Il lavoro con gli immigrati era spesso sorto in alternativa al lavoro operaio, come se gli immigrati fossero qualcosa di diverso dagli operai, oppure in alternativa al lavoro operaio come se quello fosse l’unico livello a cui era possibile organizzare politicamente la classe operaia. Le recenti prese di posizione di Viale e Sofri invece liberano le cose da questi equivoci, vedendo l’intervento con gli immigrati come elemento di socializzazione della lotta operaia. Si tratta dunque di intervenire con gli immigrati come fetta di classe operaia che ha determinati problemi esterni alla fabbrica, e acutissimi, facilmente individuabili e anche raccoglibili in termini organizzativi, in modo da rendere con loro l’allargamento a livello sociale possibile in termini organizzativamente più immediati. L’apertura di questo lavoro su quest’impostazione è secondo me importante, soprattutto a lungo termine; può contribuire ad evitare che il lavoro politico di fabbrica segua troppo gli alti e bassi delle vicende di lotta interna. Una delle garanzie è che questo lavoro si articoli attorno a un’avanguardia politica operaia, un’avanguardia che non si forma solo per far la lotta per le 50 lire nel tal reparto. Questa è una prima condizione ed è indispensabile.

Però è altrettanto importante non limitarsi a questo tipo di «socializzazione». È molto importante ricordare – e questo non sempre è chiaro nel movimento anche se adesso si esprime nella sua struttura di lavoro – che socializzazione della lotta ha un duplice significato: da un lato significa affrontare un arco di altri problemi della condizione sociale operaia che vadano al di là di quelli di fabbrica (e a questo il lavoro degli immigrati dà una parziale risposta), dall’altro significa legare nella lotta altri strati sociali, e questo è altrettanto importante, anzi è di importanza decisiva. Di qui l’interesse del gruppo che si è costituito per il lavoro verso i tecnici e gli impiegati, sia partendo da certi nuclei con cui si è già in contatto, tipo gli assicuratori o alcuni della RAI, sia rivolgendosi in particolare verso la Fiat.

L’importanza di questo sembra meno sentita a livello di massa nel movimento, proprio per un operaismo-«immigratismo» generico, per cui implicitamente esiste una coscienza superficiale secondo cui tecnici e impiegati in fondo sono dei piccolo-borghesi, sono insomma meno simpatici; non a caso mentre il nucleo, mentre il nucleo di lavoro verso gli operai verso gli operai e verso gli immigrati è estremamente numeroso, quello verso gli impiegati e i tecnici è limitato. Sottovalutare strategicamente quest’aspetto sarebbe estremamente negativo. Socializzare significa proprio lavorare in queste due direzioni. C’è poi tutto il problema, che nella sua fase attuale è difficile porsi in termini pratici, di come questo si collega alla lotta del movimento all’interno della scuola. È un problema di primaria importanza che resta da affrontare. Da questo punto di vista credo che il lavoro verso gli impiegati e i tecnici, in generale verso gli strati intermedi, ha delle forme di ripercussione, di collegamento più diretto con la lotta politica all’interno della scuola che non gli altri due.[1]


[1] V. Rieser, Cronaca delle lotte alla Fiat, in “Quaderni piacentini”, a. VIII, n° 38, luglio 1969, pp. 17-18.

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