Giornalista

A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, il cibo è andato prendendo sempre più i connotati di merce globale, la cui produzione, commercializzazione e distribuzione appaiono controllate da pochi grandi attori. La dinamica della commodity – un prodotto de-territorializzato, uguale in tutto il mondo – ha investito in modo vigoroso il settore alimentare, con un aumento esponenziale del commercio di derrate attraverso il pianeta, facilitato anche dal proliferare di accordi di libero commercio. Se il cibo ha sempre viaggiato nella storia, gli sviluppi recenti presentano una dinamica diversa e per certi versi inedita perché tendono a far prevalere un modello agro-industriale in cui necessariamente sopravvive solo chi è capace di fare economie di scala globali e produrre là dove i costi sono più contenuti.

La gran parte del cibo che consumiamo è ormai costituito da ingredienti o materie prime che spesso hanno attraversato interi continenti, a volte atterrando in luoghi dove la materia prima in questione si produce (ma a costi più alti) o si produceva (ma non si produce più proprio a causa dell’arrivo dei prodotti stranieri). Questa dinamica ha conseguenze sociali ed ambientali rilevanti, che non vengono conteggiate nel prezzo a cui il cibo viene venduto, ma che sono inerenti al costo di produzione, scaricato come esternalità negativa sull’eco-sistema e sulla comunità nel suo insieme.

Come si può invertire questa tendenza? Il cibo-commodity ha un carattere fondamentale: è anonimo. Non ha identità, né legami con il territorio dove viene prodotto. Se la filiera fosse trasparente, se venisse indicata l’origine delle materie prime, il modo di produzione, i processi industriali, sul cibo ci sarebbe più attenzione. Restituire trasparenza, indicare le varie fasi di produzione permetterebbe di valorizzare la produzione e uscire dalla dinamica della commodity, alimentando un’economia in cui le esternalità negative vengono interiorizzate nel prezzo di vendita e non pagate in modo indiretto dai cittadini.

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