Università di Bologna

Si propone un estratto dello studio Il futuro del lavoro. Il ruolo dei Fondi europei e lo sviluppo locale elaborato da Andrea Gentili, Fondazione Istituto Carlo Cattaneo, per Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Il testo integrale è consultabile all’interno della pubblicazione Le conseguenze del futuro Comunità, Nuove società, nuove economie.


Dagli albori dello studio dell’economia, già Adam Smith e David Ricardo, seguiti da tutti i principali economisti nei 250 anni di storia della disciplina, si sono occupati della complessa relazione tra tecnologia e lavoro. I benefici legati al progresso tecnologico sono ampiamente sotto gli occhi di tutti. L’evidenza storica ci mostra come, di fatto, le nazioni dominanti negli ultimi tre secoli siano quelle che sono state maggiormente in grado di cogliere i benefici della ricerca tecnologica. In tali nazioni le condizioni economiche sono migliorate a livello aggregato e, sebbene con alterne fasi distributive (Piketty and Zucman, 2014), anche per la popolazione nel suo complesso. Quanto la crescita tecnologica abbia avuto impatto sul benessere (economico ma non solo) delle popolazioni, in un periodo di tempo estremamente ridotto, appare evidente nella Figura 6.

A fronte di tale crescita esponenziale, chi obbietterebbe all’idea che produrre di più, in meno tempo, riducendo l’errore umano possa essere negativo per un Paese? Sebbene vi sia un vasto consenso intorno ai benefici dell’avanzamento tecnologico, supportato da modellizzazione teorica ed evidenza empirica, sulla crescita economica dei Paesi esiste anche evidenza di possibili ritorni negativi.

Già nel diciottesimo secolo i Luddisti si opposero con forza all’avanzamento tecnologico. Sebbene oggi si associ spesso il luddismo ad una battaglia contro l’avanzamento tecnologico in generale (perdendone nel comune dialogo la connotazione storica e sociale), i Luddisti furono il primo esempio moderno di rivolta di una classe lavoratrice contro l’avanzamento tecnologico nel loro campo lavorativo. Si trattò infatti di una rivolta organizzata dei lavoratori nel settore della tessitura (i tessitori nello specifico) che reagirono all’introduzione dei filatoi meccanizzati, in quanto tale tecnologia, di fatto, rendeva senza valore la conoscenza accumulata in anni di esperienza in quel campo, ovvero il loro capitale umano. Essi non erano infatti contro l’avanzamento tecnologico in sé ma contro l’introduzione delle macchine nel proprio settore lavorativo, ben consci che il loro relativo benessere (la tessitura al tempo per quanto lavoro durissimo per i canoni moderni era un lavoro altamente specializzato quindi relativamente ben pagato) sarebbe venuto meno assieme al loro lavoro.

Le ragioni dei luddisti di fatto possono essere estese a tutti quei lavori che nei secoli, a partire dalla prima rivoluzione industriale, sono stati soppiantati dalla macchina a vapore prima, dalla catena di montaggio poi, fino alla moderna automatizzazione ai modernissimi robot industriali e all’intelligenza artificiale. La paura di essere sostituiti, di perdere il lavoro e il salario in favore di una fredda macchina si sta estendendo in tempi moderni a gruppi sempre più larghi della popolazione dando il là a forme di preoccupazione sempre più estese e in alcuni casi a veri e propri movimenti sociali e politici che ottengono consenso in quelle fasce della popolazione che si sentono maggiormente minacciate dall’avanzata del progresso, sia sotto forma di robotizzazione del lavoro che, in generale, come forma di integrazione e modernizzazione dei paesi.

Questo fenomeno ha chiarissime connotazioni nei movimenti sovranisti ed antieuropeisti emersi nell’ultima decade. L’impossibilità di predire una così rapida evoluzione tecnologica assieme alla incapacità di adottare politiche economiche strutturalmente condivise all’interno dell’area Europea (e con esse l’incapacità comunicativa anche laddove tali politiche siano state attuate) e al dicotomico ruolo dei rappresentati eletti nelle istituzioni Europee che li ha schiacciati tra la tutela dell’interesse nazionale e gli obbiettivi comunitari hanno di fatto permesso uno scarico di responsabilità (spesso nazionali) verso “la cattiva Europa dei burocrati”.

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Possiamo quindi estendere questa onda “luddista” ad una generalizzata avversione alla modernità percepita come un mondo da cui non solo non si ottengono in molti casi vantaggi, ma che spesso per altro si accompagna con un peggioramento dello stile di vita. Nello specifico ciò che maggiormente spaventa le popolazioni è infatti l’essere investiti da una concorrenza che mette a rischio i salari e il benessere acquisito. In questo modo si spiega la paura nel caso dell’automatizzazione dei robot, nel caso dell’immigrazione del migrante, nel caso delle infrastrutture del fatto che esse rendano non più sostenibile un certo modo di vivere turbando quello stile di vita. Questo fenomeno si estrinseca con maggiore forza in quei territori che vivevano un relativo benessere (ecco perché l’Italia presenta maggiore preoccupazione verso l’Europa rispetto a Spagna e Polonia che erano fortemente attardate fino agli anni ’90) in cui il capitale umano scarseggia (rendendo molto più dura la concorrenza soprattutto nelle attività lavorative ripetitive) e dove quindi i benefici dell’apertura e della modernizzazione sono di fatto più che superati dai costi percepiti delle stesse.

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I robot industriali e l’IA hanno il potenziale per ribaltare il mondo della produzione (di beni e servizi) per come lo conosciamo. Macchine autonome, riprogrammabili, mobili su tutti gli assi spaziali, in grado di fare meglio e in minor tempo il lavoro umano, in grado di sostituire invece che complementare le funzioni lavorative degli uomini pongono il mondo di fronte ad una sfida non indifferente. Siamo davvero davanti a questo tipo di rivoluzione?

Stando a McKinsey & Company (2017) la risposta è affermativa. L’autorevole istituto di analisi sostiene infatti che nei prossimi cinquant’anni la crescita economica programmata[1] sarà di fatto quasi completamente dovuta alla crescita di produttività (Figura 13).

Gli effetti di tale fenomeno sono, come già evidenziato, particolarmente importanti. Una crescita sostenuta solo da aumento di produttività, anche in assenza di importanti ricadute negative dirette, come nel caso della crisi del 1929, implica di per sé il mancato rispetto degli obbiettivi di sviluppo proposti dai paesi. La mancanza di domanda di lavoro, a fronte di un costante aumento della popolazione (mondiale) aumenterà la pressione verso il basso dei salari indebolendo il potere di acquisto delle famiglie, soprattutto nelle fasce più deboli della popolazione aumentando il divario tra ricchi e poveri, bloccando la scala mobile sociale e, di fatto, rendendo il valore della rendita di gran lunga più importante del valore del reddito da lavoro (Piketty and Zucman, 2014). Va anche sottolineato che tale scenario pessimistico può o quantomeno potrebbe essere gestito dal policy maker.

Il McKinsey institute tuttavia non pone solo l’accento sul potenziale di crescita dell’economia, ma su come tale crescita influenzerà il lavoro come lo conosciamo oggi. Il 60% delle occupazioni ha un potenziale di automatizzazione che raggiunge il 30%, con circa il 5% delle occupazioni stesse che oggi risulta di fatto completamente automatizzabile (Figura 14).

FIGURA 14. FONTE: MCKINSEY & COMPANY (2017). PICTURE TAKEN FROM EXECUTIVE SUMMARY.

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Se questi sono stati gli effetti della crescita tecnologica (non gestita e governata in gran parte dei paesi) sui mercati del lavoro negli ultimi 20 anni, ancora più forti possono essere tali ritorni nel prossimo futuro. Se infatti OECD considera nei prossimi 10-20 anni ad alto rischio di automatizzazione circa il 10% dei lavori nei paesi OECD, circa un lavoro su due verrà comunque, secondo le loro previsioni, profondamente mutato nel periodo.

 

Le disparità all’interno delle nazioni tuttavia non si limitano a distribuzione salariale, disponibilità o meno di capitale umano e, a suo contraltare, mancanza dello stesso generatrice di bias tecnologico[2], si riflettono fortemente sulle disparità territoriali all’interno delle nazioni. Piccole variazioni aggregate a livello nazionale spesso nascondono enormi differenze interne alle nazioni nei tassi di crescita. I tassi di occupazione differiscono fortemente tra aree geografiche non più, o quantomeno non solamente, in funzione della dotazione di risorse naturali e di accesso alle infrastrutture ma, soprattutto, in funzione della connessione coi grandi centri urbani che stanno “gentrificando” l’economia.

 

È infatti nelle aree urbane maggiori che le opportunità offerte dalla tecnologia grazie ad economie di scala e di scopo permettono un forte miglioramento delle condizioni lavorative e quindi reddituali. La necessità di concentrazione territoriale è infatti una delle peculiarità della cosiddetta economia della conoscenza (knowledge economy).

 

D’altra parte, la sostituzione degli esseri umani nel mercato del lavoro da parte delle macchine non deve e non può essere vista solo come un pericolo. Esiste infatti un messaggio positivo: l’aumento di automatizzazione libera forze per attività meno ri- petitive e più liberali. In quelle aree, in generale aree urbane, in cui si sviluppa richie- sta di servizi ad alta educazione, il rischio di automatizzazione diminuisce fortemente e in generale si osserva una crescita del benessere e delle opportunità professionali.


[1] Ovvero quella crescita mondiale necessaria a raggiungere gli obbiettivi di crescita in termini di GDP per capita che i paesi hanno fissato nelle agende 2060 di sviluppo.

 

[2] Con bias tecnologico o gap tecnologico si intende generalmente l’impossibilità (per motivi culturali, di studio o di capacità individuali) di accedere in maniera appropriata alle nuove tecnologie e ai benefit che possono fornire sul mercato lavorativo.

 

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