Il passaggio di millennio era stato inaugurato da una speranza enunciata dal compianto grande sociologo e filosofo francese Pierre Bourdieu: «la precarizzazione generalizzata può essere all’origine di una solidarietà di tipo nuovo», in un prospettiva di innovazione istituzionale continentale. Venti anni dopo siamo ancora lì, nel pieno delle generazioni precarie (come abbiamo ricostruito nel progetto Commonfare). Dentro la universalizzazione della condizione precaria, divenuta oramai esistenziale, ambientale, climatica, oltre che lavorativa, per una larga fetta della società europea, acuendo diseguaglianze, frammentazione territoriale, disgregazione sociale.
Quasi dieci anni fa, nel pieno della crisi economico-finanziaria europea e globale, con Roberto Ciccarelli parlammo di Quinto Stato come condizione di esclusione dalla cittadinanza sociale di un’ampia parte di popolazione attiva, italiana, europea e migrante, sospesa tra lavoro informale, precario, autonomo, intermittente, sommerso e assenza di garanzie (La furia dei cervelli, 2011 e Il quinto stato, 2013).
Evocavamo uno scenario immerso nelle miserie di un presente istituzionale immobile o latitante, ma aperto alle ricchezze della possibile innovazione sociale, per dirla con André Gorz. Consapevoli dell’assenza di una qualsiasi forma di nuova solidarietà, che tentasse almeno di aggiornare le affaticate e insufficienti istituzioni dei singoli Welfare nazionali, sempre più fonte di esclusione e marginalizzazione, invece che di inclusione.
La logorata società salariale trascolorava in lavoro povero, insicuro, frammentato, pervasivo, discontinuo, tra disoccupazione attiva e vita messa al lavoro e in produzione nella invisibile gabbia di silicio del capitalismo digitale e dell’economia finanziarizzata. L’incapacità, o, più probabilmente, la mancata volontà culturale, politica e sindacale di pensare nuove forme di sicurezza sociale ha così generato l’impoverimento delle classi popolari e tradizionalmente operose, l’individualizzazione dei rischi sociali, l’indebitamento personale con conseguente aumento di incertezza, frustrazione, paura. La solitudine di una larga fetta della società genera una diffusa sensazione di sfiducia, quando non di rabbia, nei confronti delle élites alla guida delle istituzioni politiche esistenti. E di affidamento delle proprie malandate e frustrate esistenze alle semplificazioni post-democratiche del populismo digitale, nel galvanizzante consenso in favore dell’opportunistico uomo della provvidenza.
Che fare, allora? Letture sull’orlo di un vecchio Continente
Da un lato si concorda con chi osserva che necessitiamo di un lungo processo di creazione dell’infrastruttura cognitiva (più che regolativa e istituzionale) per ripensare il nesso tra politiche pubbliche e innovazione tecnologica nel senso di ridurre le diseguaglianze e promuovere una nuova idea di società aperta, inclusiva, solidale. D’altra parte si può riprendere una stratificata, ma assai parziale e sintetica, prima lista di punti, volutamente programmatici, a partire da alcune letture comuni.
- Iniziando con la necessità di portare finalmente a compimento il passaggio ad un garantismo sociale che tuteli e promuova l’autonomia della persona concretamente situata nella società, garantendo che l’autonomia individuale si svolga entro ambiti protetti (secondo le parole del compianto Massimo D’Antona), pensando le diverse forme di lavoro e attività al di là dell’impiego tradizionale. Au-delà de l’emploi, per riprendere un ventennale studio del giuslavorista Alain Supiot, non a caso ripubblicato nel 2016.
- Questo significa allargare le maglie della cittadinanza sociale, tenendo insieme le riflessioni su Jobless Society, automazione, investimenti pubblici, distribuzione della ricchezza, visioni post-capitalistiche e qui la letteratura comincia ad essere abbondante e provocatoria: dall’oramai classico Inventare il futuro, al recentissimo manifesto di Aaron Bastani, Fully Automated Luxury Communism.
- Così si apre il tema, culturale, politico, istituzionale, dello spazio continentale di conflitto sulla democrazia dell’algoritmo, per gli Algoritmi di libertà, e quindi di contrattazione con i grandi players e oligopolisti dell’economia di piattaforma, di regolazione dei giganti del Web e dell’Hi-Tech. Anche alla luce dell’attività svolta in questo senso dalla Commissaria europea alla concorrenza Margrethe Vestager, con la possibilità di influire nel percorso di formazione della nascente Commissione europea, a partire dal prossimo Consiglio europeo del 20-21 giugno.
- Con la consapevolezza che il nuovo mandato dovrà mettere al centro il tema, anche ecologico, ambientale, sistemico, della European Social Union After the Crisis, con il certo insufficiente European Social Pillar-Pilastro sociale europeo, nella prospettiva di quella che abbiamo provato a ricostruire come inedita solidarietà continentale, a partire anche dalle ipotesi di EuroDividend (Philippe Van Parijs), reddito di mobilitazione (Maurizio Ferraris) e di un reddito di base multilivello nell’era digitale.
- Dinanzi all’invecchiamento, alla disgregazione territoriale e alla marginalizzazione globale del vecchio Continente è necessario, per dirla con Ida Dominijanni, che l’Europa torni a essere quel laboratorio politico che non è riuscita a essere sotto la religione della stabilità, monetaria e istituzionale, cuneo di regolazione giuridica e di maggiore equità sociale interna e nel mondo, dinanzi alle migrazioni globali e al climate change, nella necessaria transizione green dentro-contro l’Antropocene e il Capitalocene.
- E qui torna l’urgenza di confrontarsi materialmente con l’avvicendarsi della classe dirigente europea, a partire da quella francese, che potrebbe vedere protagonista Bruno Le Maire, attuale Ministro francese dell’Economia, molto vicino al Presidente Emmanuel Macron che è uscito rafforzato dalle elezioni per l’Europarlamento. Le Maire ha recentemente pubblicato l’assai dibattuto libro Le nouvel empire. L’Europe du vingt et unième siècle e, in un discorso ufficiale tenuto il 10 aprile, dal titolo appunto Le Nouvel Empire, ha sostenuto di ripartire dal necessario, ma insufficiente, asse franco-tedesco per ripensare l’Europa come soggetto globale, un nuovo impero, empire paisible, “impero pacifico”, per ricordare Alexis de Tocqueville, con prospettiva di sovranità monetaria interna – per strappare questo termine ai “populismi sovranisti” – per essere autonomo spazio commerciale globale e collettore di investimenti sull’innovazione tecnologica e digitale.
Verrebbe da dire, con un battuta, che per contrastare le tendenze illiberali e depressive dei sovranismi e delle tecnocrazie, dalle visioni di un Nuovo Impero si potrebbe transitare al modello apparentemente ossimorico dell’Impero Repubblicano continentale e quindi alla Repubblica europea della solidarietà collettiva, a partire, anche ma non solo, dalle riflessioni e dai progetti portati avanti da anni da Ulrike Guerot e dal suo gruppo di ricerca. Ma ci sarà ancora molto da leggere, conoscere, interrogare, ricercare, provocare, per attivarsi nel presente e immaginare le istituzioni adeguate a questa nuova grande trasformazione.