Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Jacques Derrida l’aveva chiamata “tentazione di Siracusa”. Pensando ai rapporti tra Platone e il tiranno di Siracusa Dioniso, il pensatore francese alludeva alla millenaria pretesa del sapere di guidare e giudicare la politica.

Tentazione illusoria se ammettiamo che non ci siano credenze ultime o lezioni di verità da impartire alla politica. Il sapere è a sua volta implicato nelle vicende del mondo; subisce gli smottamenti della storia; conosce inciampi e incertezze.

Ma non si tratta di un divorzio: dobbiamo “cercare un’altra figura di alleanza” tra la filosofia e la politica, tra la conoscenza e l’arte del governo, proseguiva nel suo discorso Derrida.

Quale alleanza, dunque? E come pensarla nell’epoca della post-verità e delle fake-news – ma anche della fake science, della fake history? E quale posto occupano la conoscenza e la ragione in relazione a un potere che sempre più appare impegnato non tanto a occultare o manipolare la verità, ma più semplicemente a trascurarla?

Forse dovremmo rovesciare i termini della questione. Se il sapere non si costruisce attorno a verità assolute – proprio nel senso etimologico di “sciolte” dal legame con la realtà, con quanto avviene nelle società e irrompe nella storia – la sfida per chi esercita una funzione intellettuale è tentare la propria pratica di verità in relazione al potere.

Non si tratta di manipolare la politica o di compiacerla, ma al contrario di intrattenere con il potere una “relazione pericolosa”: Thomas Maldonado parlava della “vocazione a dissentire”, a pensare diversamente. “Per eterodossi”, scriveva in Che cos’è un intellettuale?, “si devono intendere qui tutti coloro che, in un modo o nell’altro, agiscono in contrapposizione ai dogmi, ai corpi dottrinali, ai modelli di comportamento, agli ordinamenti simbolici, e anche agli assetti di potere esistenti. Tutta gente che (…) voleva ‘fare cose nuove’. Ribelli, oppugnatori, antagonisti, trasgressivi, insomma dissidenti per vocazione (…). La tradizione degli eterodossi è sicuramente la tradizione degli intellettuali”.

Non si tratta di impartire insegnamenti, ma di sollevare il dubbio, complicare i punti di vista, restituire le istantanee schiacciate sul presente che oggi fanno notizia al loro decorso temporale, che si nutre di storia e condiziona il futuro.

Foucault parlava del “coraggio della verità” ed è interessante che la parola tedesca per dire “schiettezza” sia Freimütigkeit, dove troviamo il termine Müt che significa coraggio. Coraggio cui fa appello Kant con il motto “Sapere aude!”, che condensa il senso più radicale dell’Illuminismo: abbi il coraggio di sapere e di pensare con il tuo intelletto. Guadagnati la tua autonomia conoscendo e interpretando il mondo per come esso si mostra, non per come una qualche autorità politica, culturale o religiosa lo rappresenta o tenta di imporlo.

Ci vuole orecchio, diceva Enzo Jannacci. Conoscere, oggi, non significa solo intercettare il meglio di ciò che viene prodotto dalla ricerca, in ambito nazionale e internazionale, ma anche ascoltare quello che accade nei territori, tra le comunità, là dove si esprimono bisogni ma anche competenze. Ci vuole orecchio, non per disfarsi delle proprie bibliografie, ma per tornare alle letture e ai propri riferimenti culturali avendo la sensibilità di cogliere – sul campo – domande, attese, saperi impliciti, senza travisarli in modo ideologico o paternalistico.

Ci vuole orecchio, ma ci vuole anche coraggio. Coraggio di scoprirsi impreparati di fronte a mega trend globali che fanno non solo dell’uomo, come ebbe a dire Günther Anders, ma anche dei nostri saperi degli arnesi “antiquati”. Ma anche il coraggio di non lasciarsi intimidire da chi cavalca paure e inquietudini per inchiodarci all’impotenza.

Oggi chi fa ricerca, chi produce e promuove cultura deve avere il coraggio di esserci: non per somministrare ricette salvifiche, ma per offrire un argine alla lettura propagandistica dei fatti, per non arrendersi al monologo piatto del “non c’è alternativa”, per allentare – con il potere del racconto e della condivisione di informazioni ed esperienze – la diffidenza che oggi sfilaccia il legame sociale.

Andare controcorrente anche a costo di rimanere scottati. Nella sua raccolta di saggi La fine della fine della terra, Jonathan Franzen dice che lo scrittore è come il pompiere “il cui compito è tuffarsi nel mezzo delle fiamme della vergogna mente tutti gli altri scappano”.

Di questi tempi non serve “gridare al fuoco” e scappare per salvarsi da soli. Serve restare e rimboccarsi le maniche. Prendere sul serio le sfide senza esserne sopraffatti. Approfondire, studiare, documentarsi e ricominciare ogni volta da capo. Farlo con rigore contro ogni cialtroneria, ma anche con gioia e passione. Con il piacere di farlo insieme. Lo spazio pubblico lo reinventiamo ogni giorno prendendo parola e aprendo spazi di azione comune. Essere cittadini significa anche questo.

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