«This is why tyrants of all stripes, infernal servants, have such deep-seated hatred for the nomads […]. What they want is to create a frozen order, to falsify time’s passage. They want for the days to repeat themselves, unchanging, they want to build a big machine where every creature will be forced to take its place and carry out false actions».
(O. Tocarczuk, Flights)
Il gesto recente del cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere del Papa con un passato da elettricista, ha avuto, tra gli altri meriti, quello di portare luce – letteralmente – sul nodo di contraddizioni stretto attorno al nesso città-legge-proprietà. Snoccioliamo brevemente i grani di questo cortocircuito: uno stabile occupato a scopo abitativo da quattrocentocinquanta persone in condizioni di disagio socioeconomico; l’accesso, negato, a un bene pubblico gestito con logiche privatistiche da una S.p.A. a partecipazione comunale; l’appello a un orizzonte di legittimità alternativo e gerarchicamente sovraordinato al mero principio di legalità: carità contro giustizia, ius poli contro ius fori. Nessuna sorpresa allora se chi, rosario in una mano e pistola nell’altra, si erge ogni giorno a paladino del proprium – dal domicilio privato all’identità della Nazione – si sia trovato a dir poco spiazzato dall’atto disobbediente del porporato. Il moloch della proprietà è stato, sia pur solo per un istante, spogliato del manto di sacralità in cui solitamente è avvolto: e sotto si è visto un imperatore nudo.
A suo tempo, Foucault aveva messo in guardia dal processo di naturalizzazione che, per la «lunga cottura della storia», tende a investire usi e istituzioni. La proprietà – in forme, è bene ricordarlo, sempre diverse – ha modellato per secoli il nostro panorama sociale, ha disegnato l’architettura e l’urbanistica delle nostre città, è entrata sin nel dettaglio quotidiano della nostra cultura materiale. Si è sedimentata fino a consolidarsi in istinto: le reazioni d’ordine che ogni volta si sollevano a sua difesa ne sono la prova. Eppure, le sue origini sono tutt’altro che incontrastate. Come ha mostrato Yan Thomas (Il valore delle cose, Quodlibet 2015), nel diritto romano il primato logico spetta non al momento dell’appropriazione ma a quello dell’inappropriabilità: l’operazione iniziale è la definizione giuridica di un ambito di beni indisponibili da cui solo in un secondo momento, e per sottrazione, può emergere la sfera del possesso. Le cose pubbliche – destinate all’uso comune della civitas – vengono prima, e non dopo, le cose private. A secoli di distanza, e con la proprietà già ben incamminata sulla strada dell’egemonia simbolica, le tracce di questa archeo-logica resteranno tuttavia visibili: come, ad esempio, nella dottrina scolastica per cui, in caso di necessità, tutto torna a essere di tutti; nell’idea, ribadita ancora in pieno Cinquecento dai teologi di Salamanca, che – nonostante la divisio rerum introdotta dal diritto delle genti – strade, piazze, fiumi e vie di comunicazione siano per diritto di natura communes omnium; o, persino, nell’incipit del celebre capitolo di Locke in cui il regime proprietario moderno sembra trovare una sua stabile sistemazione teorica: che si ascolti la legge naturale o la rivelazione, «è comunque evidente che Dio […] ha dato la terra in comune a tutta l’umanità».
Si badi però: a naturalizzare la proprietà (e l’antropologia a essa connessa) non basta, ovviamente, il semplice stratificarsi delle epoche. Come altrove, anche qui sono in gioco anzitutto relazioni di potere. Il dispositivo proprietario è infatti al cuore del patto sociale moderno. Schmitt ricavava da Hobbes la formula magica della sovranità: protego ergo obligo, protezione in cambio di obbedienza. Ma nel Leviatano, questo non è l’unico meccanismo evocato ad assicurare il necessario legame di obbligazione politica. L’individuo dello stato di natura, si legge nel capitolo XV, rinuncia ad auto-governarsi e sceglie di assoggettarsi a un potere coercitivo comune anche per «rendere valida la proprietà, che gli uomini acquisiscono con il reciproco contratto, come ricompensa del diritto universale che abbandonano». La proprietà funziona insomma, nello schema hobbesiano, da potente strumento di assujettissement: si accetta di assoggettarsi a un sovrano per diventare finalmente soggetti (giuridici) proprietari. E tuttavia, prima che questo programma potesse davvero essere tradotto dalla teoria alla pratica, molta altra acqua doveva passare sotto i ponti. Per farla (brutalmente) breve: occorreva aspettare che i codici sette-ottocenteschi liberassero il dominium dalla pletora di servitù e qualificazioni cui era sottoposto nei sistemi di diritto comune e ne facessero qualcosa di potenzialmente accessibile a tutti – purché maschi e bianchi e adulti, certo. Solo allora diveniva plausibile non solo l’estensione generalizzata del regime proprietario ma anche il suo utilizzo a scopo di conservazione dell’ordine stabilito. Così, quando nella prima metà dell’Ottocento la cosiddetta “questione sociale” comincia ad affacciarsi sulla scena pubblica, la risposta delle élite liberali non è affidata solo alla repressione poliziesca. Per «governare la povertà» (è il titolo di un bel libro di Giovanna Procacci), l’espediente più efficace sembra essere quello di portarla a integrarsi gradualmente nei circuiti del possesso. E allora: casse di risparmio, miglioramento relativo delle condizioni salariali, progetti di edilizia popolare pensati per diffondere il modello dell’individualismo proprietario (e come tali denunciati da Engels già nel 1872). La progressiva separazione tra classi lavoratrici e classi pericolose passa anche di qui: molto prima di diventare uno slogan elettorale, il tous propriétaires è stato il nome di una precisa strategia governamentale.
Conosciamo le forme che tutto questo ha assunto nel corso del Novecento: prima – e sotto la spinta potente del movimento operaio organizzato – il compromesso fordista-keynesiano e la costruzione dello Stato sociale; poi, il credo neoliberale dell’autoimprenditoria, del capitale umano, dell’universalizzazione della concorrenza e dell’homo oeconomicus («colui che», di nuovo Foucault, «risulta eminentemente governabile»). Sappiamo però anche che, per motivi molteplici e diversi, entrambe le configurazioni appena ricordate sono oggi in crisi. Le metamorfosi del lavoro hanno giocato e stanno giocando, certo, un ruolo decisivo. Ma non bisogna sottovalutare il peso dell’incepparsi dei sistemi di (parziale) redistribuzione della ricchezza e della conseguente, evidentissima sperequazione che ne deriva. Il rapido dileguare della classe media significa anche che sempre più persone sono ogni giorno messe ai margini di quel patto sociale proprietario che ha garantito alle democrazie contemporanee un certo grado di stabilità. Ecco perché l’illusione “naturalizzante” che lo proteggeva sembra non reggere più: come nella nota profezia tocquevilliana, la proprietà si va speditamente trasformando in terreno di scontro politico.
Le città offrono allora la rappresentazione plastica di questo processo: la concentrazione sempre maggiore del capitale immobiliare fa sì che la casa diventi, da strumento di integrazione sociale, la posta in gioco di un conflitto. Conflitto che si può coniugare al passato, tornando a invocare la proprietà nella figura escludente del privilegio; o che si può invece reinventare al futuro, sperimentando forme non-proprietarie dell’abitare e dello stare assieme. Lasciamo perciò un momento da parte le contrapposizioni giornalistiche – sovranisti contro europeisti, populisti contro liberal-democratici – e chiediamoci: è possibile che la vera linea di faglia politica passi proprio lungo questa alternativa?