Ci sono molti segnali del declino di un modello di sviluppo che si è basato sulla produzione di sperequazione e di scarto: la crisi ambientale, le crescenti disuguaglianze sociali, il rapido inurbamento di masse crescenti di popolazione, l’abbandono di intere regioni interne e il rancore delle loro popolazioni, la crisi migratoria, la compromissione del territorio in molte parti del mondo.
L’ambiente, nei suoi elementi costitutivi, il suolo su cui poggiamo, l’acqua che ci disseta e lo rende fertile, l’aria che respiriamo, sono stati trattati come un insieme di risorse inesauribili, asservite alle necessità di uno sviluppo incapace di considerare le esternalità negative a lungo termine, che riguardano la sopravvivenza stessa del pianeta.
Ciò è avvenuto sia nelle alte sfere, dove si decidevano le grandi strategie di sviluppo economico di operatori pubblici e privati, sia nelle tattiche di sopravvivenza delle popolazioni più povere, marginali e prive di istruzione, per le quali la salvaguardia dell’ambiente non poteva certo essere una priorità.
E così si sono costruiti grandi impianti industriali che producevano ricchezza, veleno e distruzione del paesaggio allo stesso tempo; si condivideva un benessere crescente per fasce sempre più larghe della popolazione, accumulando rifiuti in discariche che danneggiavano terra, acqua e suolo; si poteva inseguire tutti una casa al mare distruggendo le coste con nastri di povere costruzioni in buona parte abusive; si lanciava un messaggio che considerava vincente solo un progetto di vita nelle grandi metropoli, favorendo lo spopolamento delle aree interne, montane ed appenniniche, abbandonando il patrimonio storico e naturale; si moltiplicavano le ricchezze dell’1% della popolazione rendendo precaria la vita delle fasce più povere.
Potrei allungare di molto l’elenco della tensione tra sviluppo e scarto, di luoghi, di materia e di persone. Una tensione che ha visto sistematicamente l’ambiente e lo spazio come recettori passivi di trasformazioni imposte dai cambiamenti dell’economia.
Diversi elementi fanno pensare che ci si sia avvicinati al limite di quel modello di sviluppo. Ne sono segnali le prime catastrofi legate alla ribellione della natura al cambiamento climatico: le alluvioni, gli uragani, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento dei mari (Latour 2018); la vendetta dei territori che non contano, che, come sostiene Andrés Rodriguez-Pose (2018), votando per la Brexit e per i partiti anti-sistema nella gran parte del mondo occidentale, portano a fondo anche i territori “che contano”; la crisi dei rifiuti in città come Napoli e Roma; la devastante crisi dell’immigrazione; la difficoltà nel riuso di edifici abbandonati nelle periferie delle città che non interessano più a nessuno.
Una serie di episodi ci dicono che forse è possibile provare a ribaltare la direzione delle relazioni causali che vedono nello spazio fisico e nell’ambiente l’ultimo anello della catena.
Alcuni di questi episodi sono ben noti ma possono essere esaminati da questa prospettiva. Mi riferisco all’esempio di Riace dove di fronte ad un paese che si è progressivamente spopolato, che dispone di un ingente patrimonio edilizio abbandonato, il sindaco Lucano ha deciso di investire nella ristrutturazione essenziale degli edifici per dare accoglienza agli immigrati e richiedenti asilo, affrontando così, a partire dallo spazio, due problemi rilevanti per la comunità e per il Paese, quello del progressivo impoverimento del piccolo centro calabrese che conta poco più di 2000 abitanti, riaprendo piccolo commercio e artigianato, e quello della integrazione dei migranti.
Su una scala più ampia la Strategia Nazionale delle Aree Interne (SNAI) si occupa di frenare spopolamento e marginalizzazione nei territori interni dell’Italia dove risiede il 23% della popolazione e che occupa il 60% del territorio nazionale. Aree lontane dai principali servizi dove la SNAI, attraverso un percorso strutturato di valorizzazione del patrimonio territoriale e ambientale, punta all’individuazione di soggetti locali e delle reti sociali capaci di aprire verso la rinascita, per consentire di uscire dal circolo vizioso della marginalità. Si tratta di una operazione complessa che parte anche in questo caso dall’incontro fra territorio, reti e politiche di sostegno.
Muovendo verso le periferie delle città sono numerose le esperienze di riattivazione di immobili dismessi o sottoutilizzati che sono diventati poli culturali, centri di servizi, spazi per il tempo libero, ma anche per co-working, artigianato e per nuove forme di manifattura urbana, grazie alla mobilitazione delle reti sociali locali e dei city-maker. Un termine sintetico per definire queste esperienze è quello di “community hub”, perché l’innesco di processi di coesione sociale è la loro principale finalità.
Sono iniziative che ripartendo dagli spazi abbandonati e ormai privi di valore sono capaci di arrestarne il degrado, riattivando interessanti economie locali e affrontando allo stesso tempo problemi di integrazione e di lotta all’esclusione (Calvaresi 2018).
Dopo il fallimento di molti progetti top down che hanno affrontato i problemi dello scarto, umano, ambientale e territoriale solo in termini remediali o di compensazione, secondo una logica cieca ai luoghi, questi episodi che partono proprio dai luoghi, stanno indicando una possibile strada opposta che costruisce un dialogo fecondo tra iniziative top down e bottom up e si diffondono attraverso la rete suscitando interessanti processi imitativi. Esperienze come quelle del Bilancio partecipativo, partito da Porto Alegre molti anni fa ed oggi praticato in tutto il mondo (Madrid investe 100 milioni all’anno), o del modello “Reinventing cities” sperimentato a Parigi ed oggi diffuso attraverso la rete C40 nelle principali metropoli d’Europa.
Se si tratti solo di episodi marginali o di iniziative capaci di rispondere al declino del modello di sviluppo corrente si potrà valutare solo nel breve tempo concesso dalla crisi sociale ed ambientale che soffoca la terra.
Calvaresi, C. (2018), “Agenda urbana e community hub”, in Territorio, n. 84, p. 105-110
Latour, B. (2018) Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Milano, Raffaele Cortina ed.
Rodríguez-Pose, A. (2018), The revenge of the places that don’t matter (and what to do about it) in Cambridge Journal of Regions, Economy and Society, 11, 189–209