Pubblichiamo qui un estratto dello studio Immigrazione e integrazione in Europa.
Condizioni strutturali e limiti istituzionali a firma di Marco Valbruzzi e realizzato dall’istituto Cattaneo per Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Il testo integrale sarà a breve presentato nell’eBook della serie Conseguenze del futuro con il titolo Spazio: le piazze del mondo.
Introduzione
Nell’ultimo decennio, soprattutto in Italia, l’immigrazione e le conseguenti politiche migratorie sono state affrontate in prevalenza come un’emergenza sociale, un’urgenza da affrontare senza possibilità di programmazione o pianificazione temporale. La “crisi” migratoria, esplosa tra il 2013 e il 2017, ha schiacciato l’intero dibattito pubblico sulla questione – politicamente molto delicata – degli sbarchi sulle coste dei paesi mediterranei, a partire da quelle italiane, e della relativa accoglienza dei migranti.
Da questo punto di vista, il tema dell’immigrazione è stato presentato all’opinione pubblica come un fenomeno di portata globale, che coinvolge moltitudini di popoli provenienti da diversi continenti, in particolare quelli africani, asiatici e latino-americani. L’immigrazione è stata intesa, dunque, come uno dei tanti volti della globalizzazione: la maggiore integrazione sovranazionale non comportava soltanto una crescita nel livello dello scambio di merci a livello globale, ma anche una maggiore frequenza di movimenti – volontari o involontari – di persone al di fuori dei loro paesi di appartenenza. In breve, la crescita dell’immigrazione come conseguenza della globalizzazione era presentata e concepita come un fenomeno che trascende i confini dei singoli Stati nazionali e la cui regolamentazione poteva avvenire soltanto su una scala multinazionale.
Sul piano europeo, ad esempio, la discussione degli ultimi anni si è concentrata, sostanzialmente, su due aspetti: le politiche di controllo delle frontiere, da un lato, e la possibilità di redistribuzione, più o meno proporzionale, dei richiedenti asilo tra gli Stati membri dell’UE, dall’altro. Tutti gli altri aspetti dell’intero ciclo migratorio hanno, invece, attirato scarsa attenzione sia da parte dei policy makers che dall’opinione pubblica in generale. L’impegno dei singoli paesi europei o delle istituzioni dell’UE nel suo insieme verso le politiche di sviluppo o cooperazione internazionale si è ridotto nel corso del tempo, soprattutto nel contesto italiano, con una contrazione delle risorse destinate all’aiuto pubblico per i paesi poveri o in via di sviluppo.
Ancora più ridotta è stata l’attenzione rivolta all’ultima “tappa” del ciclo migratorio, che consiste nelle politiche per l’integrazione dei migranti all’interno del tessuto sociale, culturale, professionale dei paesi di accoglienza o residenza. L’enfasi sull’emergenza, così come la presentazione del fenomeno in chiave sovranazionale o globale, hanno finito per mettere in ombra il processo di integrazione degli stranieri, attività che avviene primariamente a livello locale, ossia nelle città in cui i migranti vengono assegnati o in quelle scelte autonomamente per costruire il proprio progetto di inclusione sociale. Nell’ultimo decennio questa asimmetria è sensibilmente aumentata, e le politiche dell’integrazione locale non hanno ricevuto l’attenzione che avrebbero meritato, tanto da parte degli studiosi quanto da coloro che avrebbero il compito di affrontare, con strumenti normativi e legislativi, la questione. Soltanto nell’ultimo biennio, e con interventi spesso poco coordinati sul piano nazionale e senza alcun approccio teorico in grado di orientare scelte o decisioni, abbiamo assistito alla diffusione di studi empirici sulle prime esperienze di integrazione dei migranti nelle città europee.
Integrazione: chi, quanti e dove
Qualsiasi discorso sull’integrazione e sulle politiche pubbliche ad essa connesse deve tenere conto, innanzitutto, della diffusione del fenomeno, sia a livello geografico che temporale. In particolare, il dato da mettere in evidenza riguarda le forti disparità che esistono, in relazione alla presenza di popolazione straniera, tra i paesi europei così come all’interno degli stessi paesi. Nella maggior parte degli Stati considerati ci sono regioni dove la presenza di stranieri è superiore al 15% che coesistono con regioni dove quella stessa percentuale non arriva al 6%. Ci sono, quindi, grandi differenze anche a livello territoriale per quanto riguarda la presenza di migranti in ciascun paese dell’Unione Europea (fig. 2).
Oltre alle differenze regionali, la distribuzione dei migranti nel contesto europeo presenta una seconda fonte di disparità territoriale ugualmente rilevante. Difatti, all’incirca i due terzi della popolazione straniera si concentrano nelle aree urbane e metropolitane, con una differenza di oltre 6 punti percentuali rispetto alla popolazione nativa. Questa concentrazione è particolarmente forte nelle capitali delle città o nelle aree a grande sviluppo urbano. Ad esempio, a Bruxelles o a Londra le persone straniere rappresentano circa un terzo della popolazione residente. Il caso italiano non si discosta da questa tendenza, anche se esistono differenze tra la distribuzione – più omogenea sul territorio – dei rifugiati o richiedenti asilo, da un lato, e quella degli immigrati, dall’altro. Questi ultimi si concentrano prevalentemente nelle zone urbane o nelle grandi città, in particolar modo in quelle con economie più prospere e a maggior sviluppo economico. Nel caso italiano, al di là del ruolo centrale svolto dalla Capitale nella gestione delle fasi dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti, questi ultimi tendono a concentrarsi soprattutto nelle città delle regioni settentrionali, peraltro seguendo percorsi già attivati in passato e che tendono ad alimentarsi nel corso degli anni e delle esperienze di immigrazione.
Crescita dei migranti nella popolazione tra il 2005 e il 2015 (differenza in punti percentuali)
Fonte: OECD 2018, “Working Together for Local Integration of Migrants and Refugees, OECD Publishing, Paris. http://dx.doi.org/10.1787/9789264085350-en”.
Non è, dunque, un caso, come riporta chiaramente la figura 5, se la quota di migranti arrivati di recente nei paesi europei sul totale della popolazione straniera è maggiore proprio nelle aree che già in passato si caratterizzavano per una più elevata presenza di immigrati (l’effetto “network”, nelle “catene migratorie”, resta fondamentale). Questo ha, ovviamente, diverse conseguenze per i successivi percorsi di integrazione seguiti dai migranti. Innanzitutto, svolgono un ruolo centrale le comunità di persone straniere già presenti e attive sui territori, le quali offrono percorsi di inserimento – più o meno informali – all’interno del tessuto cooperativo, associativo e professionale. In secondo luogo, l’arrivo di nuovi migranti in territori che già avevano e hanno conosciuto esperienze di immigrazione consente di fare leva su strumenti istituzionali o pratiche politiche già collaudate nel corso del tempo, che talvolta richiedono una ri-attivazione e non, come spesso accade, un’impostazione ex novo di tutti i circuiti collegati all’accoglienza e all’integrazione. Da ultimo, i newcomers che seguono percorsi già tracciati da chi li ha preceduti tendono anche a rafforzare o consolidare pratiche di insediamento abitativo nelle diverse città di arrivo, accentuando spesso situazioni di segregazione sociale. Su questo aspetto, le evidenze empiriche relative ai meccanismi di dispersione urbana dei migranti sono tutt’altro che univoche e definitive. Di fronte a studi che mettono in risalto la maggiore capacità dei meccanismi dispersivi nel produrre una situazione più favorevole ai processi di inclusione sociale, esistono ugualmente altre ricerche che tendono, invece, ad evidenziare i potenziali effettivi negativi, sul piano sia sociale che professionale, innescati da una separazione dei migranti dalle loro comunità di riferimento. In ogni caso, è chiaro che la questione dell’arrivo degli stranieri e della loro collocazione nello spazio urbano delle città ha implicazioni dirette sull’efficacia dei percorsi di integrazione sociale.