Fondazione Gramsci

Articolo tratto dal Laboratorio sulle inquietudini e le violenze nel tempo presente


La rivendicazione del primato della sovranità nazionale ricorre con insistenza nel lessico dei partiti e movimenti di destra che in Europa hanno cavalcato il risentimento diffusosi verso le istituzioni comunitarie e il modo in cui esse hanno affrontato la crisi economica e politica esplosa circa dieci anni fa. Il caso italiano non presenta particolari eccezioni. La difesa dei confini nazionali dai flussi transnazionali – di persone, di merci e di culture – è stato uno degli argomenti a cui ha fatto maggiormente ricorso la Lega sotto la leadership di Salvini, un partito non solo ascrivibile alla categoria di destra ma sempre più integrato nell’area dell’estrema destra.  Il ricorso a questi temi, in particolare nella forma della contrapposizione tra la stabilità del capitalismo produttivo e la mobilità di quello finanziario, ha caratterizzato anche il Movimento 5 stelle che, pur rifiutando la distinzione destra/sinistra, recupera sovente argomenti e retoriche utilizzati dalle destre italiane in età repubblicana, a partire dal modo in cui esso rappresenta il rapporto tra partiti e Stato in una democrazia di massa.

Definire in che modo la destra italiana in età repubblicana abbia affrontato il nesso tra interessi nazionali e politica mondiale non è un’operazione semplice, in primo luogo perché non è chiaro quali siano i confini di questa destra tra il 1946 e il 1994.  Prenderemo in considerazione l’unico partito esplicitamente di destra, il Movimento sociale italiano, che comunque giunge a identificarsi come tale dopo una turbolenta fase delle origini nella quale la collocazione a destra è motivo di tensione tra le sue correnti. Negli stessi anni, il Msi rivendica una terza via, culturale e politica, rispetto ai due principali schieramenti postbellici, quello sovietico e quello americano.

Il nodo della collocazione a destra è sciolto congiuntamente al superamento di queste ambizioni velleitarie. Pur essendo ai margini del sistema politico italiano anche il Msi vive a suo modo uno degli esiti della divisione del mondo in due campi: lo spazio della legittimazione dei partiti politici è sempre meno confinabile allo Stato nazione. L’acceso nazionalismo del Msi convive perciò con un anticomunismo oltranzista e la politica internazionale è un possibile canale di legittimazione per un partito nato su una scelta delegittimante: richiamarsi al fascismo in una democrazia nata grazie al crollo del regime mussoliniano.

L’aspirazione del Msi a una legittimazione piena fallisce innanzi tutto perché il “campo” in cui il partito si vorrebbe inserire non gli riconosce legittimità, ma al massimo ritiene di potersene servire. Tra i vari esempi di questo rapporto monco può essere utile menzionare un tentativo operato tra il 1968 e il 1969 da due dirigenti del partito, Franco Servello e Raffaele Delfino, che partecipano alla campagna elettorale di Richard Nixon presso alcune comunità italoamericane della costa orientale degli Stati Uniti. Presentandosi alla controparte statunitense, i due affermano di parlare a nome di una nuova generazione priva di responsabilità e nostalgie verso il passato. L’argomento utilizzato per difendere la propria causa merita un cenno: come l’Amministrazione Kennedy e in particolare l’Ambasciata americana a Roma avrebbero legittimato il Psi avallando i governi di centrosinistra, ora l’Amministrazione Nixon può garantire un analogo esito a destra per il Msi. Il ragionamento rivela una concezione dei rapporti internazionali fondata su rigide catene di comando, al cui vertice vengono posti gli Stati Uniti. Le istanze nazionaliste del Msi dimostrano la loro cifra dimostrativa di fronte alla possibilità di mutare la funzione del partito da forza confinata all’opposizione a potenziale sostegno per il governo. Nonostante le intenzioni degli italiani, il rapporto fallisce in breve tempo perché la controparte statunitense non è interessata a proseguire. Inoltre, l’operazione è velleitaria fin dal principio perché l’antiamericanismo è un tratto dell’identità del Msi che sopravvive alla sua scelta filoatlantica.

Nei primi anni di vita del partito la cultura americana e in particolare il suo veicolo all’epoca più potente, il cinema, sono aspramente condannati, per altro per ragioni spesso contraddittorie tra loro. Il disprezzo per la cifra prettamente borghese attribuita alla cultura americana convive ad esempio con la condanna degli effetti che la sua diffusione potrebbe avere sulla morale borghese, determinando la dissociazione dei nuclei familiari e la diffusione di stili di vita ritenuti “devianti”. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, eccettuati alcuni circuiti minoritari, l’indifferenza fa aggio sul rifiuto e gli Stati Uniti sono considerati incapaci di esprimere una cultura degna di attenzione. Il quadro cambia solo dalla seconda metà degli anni Settanta, secondo due tendenze non sovrapponibili: sulla stampa di partito divengono frequenti le recensioni di autori d’oltreoceano (letterari, cinematografici, musicali) che offrono un quadro critico della società americana, ma anche la produzione di massa, in particolare quella hollywoodiana, non è più rifiutata in quanto frutto di una cultura inferiore e in certi casi è accolta da giudizi entusiasti.

In chiave politica, l’antiamericanismo prende la forma della critica alla democrazia di massa, ritenuta una quinta colonna per la penetrazione del comunismo. Nella propaganda missina il simbolo di questo modello democratico è Franklin Delano Roosevelt, su cui grava l’“accusa” di aver congiurato al crollo del fascismo. I politici statunitensi esentati da questo giudizio provengono tutti dal Partito repubblicano: Barry Goldwater, Richard Nixon e Ronald Reagan. In particolare, Reagan è ben presto salutato come la nemesi di Roosevelt sia per le sue scelte di politica estera – almeno fino al 1986 – sia per quelle di politica interna – per tutta la durata della sua presidenza. La proposta politica reaganiana è tradotta e adattata secondo gli schemi del Msi degli anni Ottanta, operando perciò la mutuazione delle istanze di una destra neoliberale attraverso i simboli e il lessico di una destra nostalgica del fascismo.

I cortocircuiti tra le lealtà alla patria e al campo di appartenenza del partito rimangono frequenti anche nell’ultima stagione della sua esistenza. Il Msi fa un costante ricorso a una retorica nazionalista e al tempo stesso è una delle poche forze politiche schierate a sostegno dell’alleato americano durante la crisi di Sigonella. Segnali, ancora una volta, di quanto le istanze nazionaliste possano essere messe alla prova di una politica in cui le identità si decidono anche su scala internazionale. Qualcosa di simile accade durante la guerra del Golfo quando il gruppo dirigente del partito si riallinea sul sostegno all’intervento a guida americana mettendo di fatto in minoranza il segretario del partito Pino Rauti, che dopo l’implosione del socialismo reale aveva cercato di recuperare la retorica della terza via in nome di un nuovo protagonismo, anche militare, del continente europeo.

Il passaggio dal Msi ad Alleanza nazionale è stato anche un tentativo di risolvere queste aporie tra identità nazionale e collocazione internazionale. Fini, in particolare, ha cercato di integrare la destra italiana in un quadro europeo e occidentale, senza tuttavia dismettere la retorica nazionalista. All’interno della coalizione guidata da Berlusconi e da Forza Italia, è stata soprattutto la Lega Nord a caratterizzare la propria proposta politica per una cifra antieuropeista, oltre che per un atteggiamento xenofobo verso i meridionali e gli immigrati. Sotto la guida di Salvini, la Lega ha abbandonato il nazionalismo da piccola patria – la Padania immaginata di Bossi – con l’intenzione di allargare oltre il Nord il proprio bacino di consensi. Pressoché in contemporanea, l’area della destra postfascista è stata occupata da Fratelli d’Italia, un partito sorto a causa del fallimento di Alleanza nazionale e che si propone, al momento con scarso successo, di competere con la strategia leghista.

Cercare di stabilire se esista nel presente un retaggio della destra a cui si è fatto cenno rischierebbe di condannarci a più di un anacronismo. Pensare di comprendere il presente ricavandone il calco dal passato è un sintomo di pigrizia intellettuale. Tuttavia, qualche continuità può essere rilevata anche risalendo a prima del 1994. Si è fatto spesso cenno ai cortocircuiti tra la cifra nazionalista della destra espressa dal Msi e la contestualizzazione di quel partito in un quadro politico sempre più internazionalizzato. Oggi rimane qualche traccia di quelle contraddizioni, anche se termini come “internazionalizzazione” suonano desueti e si preferiscono quelli di globalizzazione o globalità. Nella destra italiana di allora e in quella di oggi la nazione era/è rappresentata come un soggetto assediato da nemici esterni che si muovono su una dimensione internazionale: un tempo il comunismo e a lungo anche l’american way of life; oggi i flussi che si ritiene possano intaccare un’identità nazionale vaga e destoricizzata. In termini di analogie, la cifra dimostrativa è prevalente nel nazionalismo odierno – basti pensare alla piatta acquiescenza della Lega alla politica estera di Trump – così come lo era in quello agitato dal Msi. L’impotenza di lessici e intenti nazionalisti come rimedio per il lungo processo di crisi di sovranità degli stati nazionali europei, accentuato per giunta dalla grande crisi economica degli anni Duemila, è un’evidenza che si rafforza di giorno in giorno. Tra le varie discontinuità che consigliano prudenza nelle analogie, la retorica nazionalista oggi si è fatta però governo, rivelando oltre ai limiti anche i rischi di questa proposta politica, primo tra i quali la concreta possibilità che in nome della difesa della sovranità della nazione se ne faciliti l’indebolimento e il declino.

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