L’articolo è tratto dal percorso editoriale dedicato alla figura e alle eredità di Margaret Thatcher in occasione di quarantanni dalle elezioni del 4 maggio 1979 che avrebbero cambiato per sempre la Gran Bretagna e l’Europa
Un fiume carsico che riemerge più volte nel corso del Novecento è raffigurato dai momenti di crisi del capitalismo, un sistema che in un certo senso è sempre in crisi (Nicholas Kaldor), e dalle difficoltà nell’immaginare un sistema diverso. Già nel 1933, ragionando sulle vie d’uscita alla crisi di Wall Street, John Maynard Keynes scriveva infatti: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi”. La veridicità della tesi di Keynes è ulteriormente confermata dalla recente crisi del 2008: malgrado gli scossoni subiti, non pare all’ordine del giorno la predisposizione di un nuovo ordine economico. A mancare, a monte di soluzioni a una crisi strutturale, sembra essere innanzitutto una diversa visione della società e, di conseguenza, differenti categorie politiche di interpretazione del reale. Da un lato, lo si è compreso, il capitalismo contemporaneo vive e si rafforza anche attraverso le crisi; dall’altro, per dirla con Gramsci, la crisi consiste nel fatto che “il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, vol. I., a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 2014 [I ed. 1975], p. 311).
Ma non è una difficoltà soltanto dei nostri tempi. Al contrario, la difficoltà nell’individuare nuovi e differenti percorsi a fronte di un determinato problema affiora e si amplifica nei momenti di crisi dell’epoca contemporanea. Nel momento in cui le società vengono travolte da una crisi, congiunturale o strutturale, la situazione reale si modifica più velocemente di quanto non riescano a fare le categorie analitiche e descrittive.
Così fioriscono quei prefissi – i “post”, i “pre”, i “de”, i “neo” – che indicano un cambiamento che però ancora sfugge. Come scrisse Colin Crouch (C. Crouch, Il potere dei giganti. Perche la crisi non ha sconfitto il neoliberalismo, Laterza, Roma-Bari, 2014) nel tracciare le origini della crisi dei subprime, pur volendo “mostrarci pienamente impegnati in un fondamentale cambiamento sistemico”, ma “non conoscendo realmente la nostra condizione”, alla fine, “per autodefinirci”, “facciamo riferimento a ciò che lasciamo alle spalle […] o a ciò che ha un vago sentore di rinnovamento e di innovazione”.[…]
L’eredità di Margaret Thatcher secondo Colin Crouch
L’approccio storico ci consente, infatti, di comprendere quanto il bagaglio esperienziale di ieri, composto da opzioni positive e da soluzioni meno efficaci, sia estremamente utile nella ricerca di senso dell’oggi, anche per capire quali questioni del passato, rimaste aperte, premono ancora sul presente. Al netto delle complessità incontrate dai contemporanei nell’afferrare le dinamiche più profonde di un determinato momento storico di transizione, difficoltà acuite dalla profondità della rottura, dalle crisi si è spesso generata una riflessione volta a trovare modelli che non soltanto le superassero, ma che definissero un quadro capace di evitare nuove e più dolorose ricadute.
Pur riflettendo sulla storia complessiva del capitalismo, un momento centrale nel testo che qui introduciamo è rappresentato dalla crisi del 1929. Certo, già la crisi finanziaria del 1873 aveva costituito un momento di rottura, dal quale l’economia occidentale sarebbe uscita con un lungo quarantennio di sviluppo, terminato soltanto con lo scoppio della Prima guerra mondiale. Ma la crisi del 1929 ha comunque segnato “un punto di svolta per i più, con una depressione” durata “dai 2 ai 6 anni, a seconda dei paesi” (p. 9).
Il superamento della crisi non fu automatico. Anzi, proprio per individuarne vie d’uscita e per predisporre un futuro diverso, possibilmente capace di evitare nuove e gravose drammaticità, si sviluppò un dibattito intellettuale e politico quanto mai fecondo e variegato. È Karl Polanyi a ricordarci, infatti, che dopo la crisi del 1929 le società cercarono di arginare l’espansione sregolata del mercato ricorrendo a soluzioni disparate da un punto di vista ideologico (socialismo, nazionalsocialismo), ma che condividevano un medesimo obiettivo: al movimento rappresentato dal diffondersi del mercato autoregolato in tutti gli ambiti della vita andava assolutamente opposto un contro-movimento che fosse in grado di difendere la società dagli effetti deleteri del mercato e governare quest’ultimo (K. Polanyi, The Great Transformation. The Political and Economic Origins of Our Time, Beacon Press, Boston, 1957, pp. 223-248).
Benché gli economisti ortodossi descrissero la crisi del 1929 come sistemica, cioè come un elemento endogeno agli sviluppi del capitalismo, a partire dai primi anni Trenta, quindi una volta dispiegatesi sul vasto scenario le sue conseguenze sociali, economiche e politiche più negative, vennero messe a punto delle interpretazioni quanto mai approfondite, nell’ottica di comprenderne le caratteristiche e, al contempo, di proporre valide soluzioni ai problemi aperti sul campo. Fu Henri De Man, nel corso di una conferenza a Liegi nel 1934, a spiegare che la depressione di quegli anni non poteva coincidere con una fase passeggera, ma raffigurava la manifestazione indubitabile di una crisi di regime (Les techniciens et la crise: conference donnee par Henri De Man, a Liege, le 10 novembre 1934, Imprimerie Coopérative, Huy, 1934, p. 3).
Come uscire da quella crisi? In quale maniera evitare che gli effetti più nefasti potessero non solo svilupparsi, ma anche lasciare profonde tracce sulla società europea? Quali possibilità percorrere per rigenerare le società?
[…] Seguendo lo schema coniato da Angus Maddison, quello schema che divide in cinque fasi distinte l’evoluzione del sistema capitalistico dall’inizio dell’Ottocento a oggi, Pier Giorgio Ardeni non solo si sofferma sugli sviluppi in senso lato delle trasformazioni prodotte dalle crisi nel macro-spazio europeo-occidentale. Al contempo, sviluppa il suo discorso ponendo l’accento su alcuni momenti effettivamente di svolta. Soltanto due esempi. In primo luogo, riflettendo sulla quarta fase dello sviluppo capitalistico, quella del “boom economico” o, per dirla con Eric Hobsbawm, dell’“età dell’oro”, non solo vengono evidenziate le caratteristiche principali del periodo 1950-1973; quella crescita prodigiosa è in realtà da porre in connessione con la lunga uscita dalla crisi del 1929: soltanto la ricostruzione post-bellica gettò “le basi per lo sviluppo economico del dopoguerra” (p. 10).
In secondo luogo, analizzando la quinta fase, Ardeni fa giustamente notare come possa venire suddivisa in due ulteriori fasi, l’una di ristrutturazione e rallentamento, compresa tra il 1973 e il 1989, e in una fase successiva, quella della cosiddetta “globalizzazione”, che inizia nel 1990 e che nel 2008 ha avuto un grave momento di crisi. Se dopo il 1973, lo shock petrolifero e l’aumento dei prezzi delle materie prime lo sviluppo dell’“età dell’oro” andò incontro a un brusco arresto pur senza registrare una vera e propria rottura negativa, con il 1989 e l’ingresso nell’economia mondiale di quei paesi prima esclusi – per esempio l’Est Europeo – Ardeni registra sempre tassi di crescita rallentati, ma comunque costanti. È stata soltanto la crisi del 2008 a segnare un vero e proprio cambiamento di tendenza, capace di interessare tutti i paesi in modo più o meno pronunciato. Fare luce sul nesso, sottile ma al tempo stesso forte, tra crisi e sviluppo permetterà di comprendere non soltanto i mutamenti di piccolo cabotaggio, ma anche di porre l’attenzione sulle “grandi trasformazioni epocali i cui effetti sociali sono stati vistosi, sconvolgenti e anche drammatici” (p. 15).