Rocky Mountain Institute
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Ecologista, imprenditore e giornalista

Di seguito un estratto del libro di P. Hawken, A. Lovins, L. Hunter Lovins, Capitalismo naturale. La prossima rivoluzione industriale, a cura di Gianfranco Bologna, Milano, Edizioni Ambiente, 2011.

Si ringraziano gli autori e l’editore per la gentile concessione.


Il declino di molte antiche civiltà è legato al deterioramento del suolo, ma sono pochi i politici che tengono presente questo insegnamento della storia. Un secolo di agricoltura nello Iowa, la regione a maggiore densità di terreni agricoli primari del mondo, ha cancellato metà della millenaria estensione a prateria e, come afferma Evan Eisenberg, quel che rimane “è mezzo morto, quasi privo dell’originario brulicare di forme di vita annientate dai pesticidi, dagli erbicidi e dalla monocoltura. Sono i prodotti petrolchimici a sostentare l’alienante produttività di questa regione. Gli abitanti dello Iowa garantiscono agli ospiti che il caffè che offrono loro è fatto con acqua ottenuta con un filtro a osmosi inversa, poiché i reflui agricoli hanno reso l’acqua del rubinetto  imbevibile”.

L’agricoltura consuma quasi due terzi dell’acqua prelevata da fiumi, laghi e acquiferi di tutto il mondo. L’irrigazione solo sul 16% della superficie coltivata del pianeta (di cui tre quarti nei paesi in via di sviluppo), ma fornisce il 40% dei prodotti alimentari globali. ln molte regioni di fondamentale importanza le falde sotterranee sono sfruttate in eccesso e si svuotano, proprio come fossero pozzi petroliferi. Negli Stati Uniti, circa un quarto dell’acqua che arriva dalle falde per scopi irrigui (un terzo del totale) in sovrasfruttamento, cioè sopra alle possibilità di ricarica delle falde. La salinizzazione e gli altri effetti dei sistemi di irrigazione e di gestione delle acque poco funzionali hanno già danneggiato, in qualche caso irreversibilmente, più di un decimo dei terreni irrigati della Terra.

Dal 1945 a oggi, queste e altre forme di deterioramento hanno alterato più di un miliardo di ettari, un’area corrispondente più o meno alla Cina e all’India messe insieme. Quattro quinti di quest’area appartengono a paesi in via di sviluppo, dove persino i governi (per non parlare degli agricoltori) sono privi dei capitali necessari per porre rimedio alla situazione, e in circa la metà di questi terreni non ci sono nemmeno riserve idriche sufficienti a consentire un rapido recupero.

Di quell’11% di superficie globale che nel 1990 venne considerato coltivabile poco rimane che sia veramente in buone condizioni: la maggior parte è impoverita e soggetta a un peggioramento sempre più rapido.

Il deterioramento del capitale naturale alla base dell’agricoltura induce effetti negativi sulla produttività complessiva di quasi tutti i sistemi agrari, comprese le risaie irrigate dell’Asia. Tale declino procede nonostante gli interventi tecnologici che sono stati attuati per contrastarlo. In molte zone è stato necessario triplicare l’impiego di fertilizzanti e selezionare nuove varietà al solo scopo di mantenere costante la produzione delle nuove specie di riso. Tra il 1970 e il 1994, negli Stati Uniti si è verificata una situazione analoga nel settore forestale. La produttività del lavoro è aumentata del 50% mentre quella complessiva è crollata del 30%, perché i progressi tecnologici delle operazioni di disboscamento non potevano compensare le perdite quantitative e qualitative delle risorse forestali.

Ma sono gli interventi della genetica quelli che potrebbero creare i disastri più gravi. L’agricoltura mondiale vive su un patrimonio genetico estremamente limitato. Delle 200.000 specie vegetali selvatiche, afferma il biogeografo Jared Diamond, “solo poche migliaia sono idonee all’uso alimentare umano e solo poche centinaia sono state più meno addomesticate”. I tre quarti dei prodotti alimentari di tutto il mondo derivano da sette specie di piante: il frumento, il riso, il granturco, la patata, l’orzo, la cassava (o manioca) e il sorgo. Per quanto riguarda l’uomo, circa la metà dell’apporto calorico e proteico proviene soltanto dai primi tre cereali. Aggiungendo alla lista un legume (la soia), un tubero (la patata dolce), due fonti di zucchero (la canna e la barbabietola da zucchero) e una pianta da frutto (il banano), si raggiunge l’80% del tonnellaggio totale di prodotti agricoli. In ciascuna di queste specie basilari la varietà genetica sta rapidamente scomparendo via via che gli habitat originari vengono distrutti. ln questo sistema di agricoltura industrializzata a essere adottate per la produzione massiva sono, tipicamente, le varietà a più alto rendimento e più stretta specializzazione, che soppiantano quindi le “parenti” maggiormente diversificate. L’India per esempio, è sul punto di rimpiazzare definitivamente le sue 30.000 varietà indigene di riso con una supervarietà che cancellerà secoli di conoscenze botaniche e di selezione.

E quel che è forse peggio, le banche delle sementi, che raccolgono e preservano migliaia di varietà diverse di piante comuni e rare, vengono trascurate dai finanziamenti pubblici, cosicché l’insostituibile germoplasma che esse custodiscono sta perdendo le proprie capacità germinative.

La maggior parte di queste banche sono state assorbite da aziende del settore agrochimico. Queste ultime tentano di diventare le uniche eredi legittime della diversità vegetale della Terra, e se non ci riescono acquistandola, ci provano manipolando le leggi sulla proprietà intellettuale perché includano i “beni senza padrone” della natura o aumentando le possibilità di stabilire monopoli legali su di essi. Questi sforzi per impedire che gli alimenti possano essere prodotti fuori dai canali commerciali sono allettanti per gli investitori, ma non costituiscono sicuramente una buona strategia a lungo termine per garantire la sopravvivenza delle popolazioni.

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