Giornalista
Direttore dell’associazione ambientalista “Terra!”

Di seguito proponiamo un estratto del libro di Fabio Ciconte, Stefano Liberti, Il grande carrello. Chi decide cosa mangiamo, Bari-Roma, Laterza, 2019, pp. 104-106

Si ringraziano gli autori e l’editore per la gentile concessione.


In quella che il rapporto Censis 2018 definisce la società del «cattivismo diffuso»,[1] dove quasi l’80% degli italiani è arrabbiato, disorientato, o comunque ha un approccio alla vita negativo, le dinamiche dei consumi sono molto variegate.

Il potere d’acquisto è calato del 6,3% rispetto a dieci anni fa e prevale l’idea che è «meglio non spendere o spendere poco perché chissà cosa potrebbe accadere». Le famiglie degli operai e degli impiegati comprano sempre meno, quelle degli imprenditori sempre di più. Così i consumi sono molto diseguali. Naturalmente al supermercato ci vanno tutti, tanto chi ha un potere d’acquisto più alto, non bada a spese e si rivolge prevalentemente ai grandi marchi, quanto chi ha a disposizione un budget più limitato.

Le corsie non fanno distinzioni di ceto: offrono soluzioni diversificate adatte a ogni tipo di consumatore. Le grandi marche non sono appannaggio solo delle famiglie con maggiore disponibilità perché, proprio in questa fase di incertezza, i consumi svolgono diverse funzioni, a partire da quella consolatoria e da quella che il Censis qualifica «marcatura della propria identità individuale».

Per questo non vince sempre e necessariamente il prezzo più basso e un ruolo centrale lo giocano quei marchi che hanno saputo conquistarsi la fiducia a colpi di passaggi pubblicitari in televisione o sul web, con jingle che sono entrati nella storia e slogan talmente ripetuti e ascoltati che sono rimasti impressi nella memoria collettiva. Così, quando sentiamo «Ehi papà guarda, un pollo!», a tutti noi viene immediatamente in mente lo sguardo felice del bambino quando vede arrivare in tavola un pollo intero, cucinato dalle mani della madre che ha finalmente capito che per rendere speciale quel piatto deve aggiungere il dado Knorr. E chi non ricorda la pubblicità dei Ferrero Rocher, dove la ricca signora vestita in giallo annuncia al suo autista «Ambrogio, avverto un leggero languorino», e lui è subito pronto a porgerle la pralina di cioccolato?

Tra immagini di famiglie patinate, slogan semplici ed efficaci, dagli anni di Carosello ad oggi la pubblicità ha dedicato sempre meno attenzione alle caratteristiche intrinseche dei prodotti e sempre di più alla creazione di un sistema di valori associabili alla marca. Lo fa a volte attraverso vere e proprie saghe pubblicitarie, come quelle celebri della Lavazza ambientate in un paradiso dove gli angeli bevono solo caffè, fino ad arrivare a quella più provocatoria del Buondì Motta, la pubblicità con l’asteroide che precipita su madre, padre e postino, colpevoli di aver dubitato che possa esistere una colazione in grado di «coniugare leggerezza e golosità».

Che sia una pubblicità provocatoria o tradizionale, l’obiettivo è sempre lo stesso: creare un legame identitario con il consumatore. Più il brand riesce in questo scopo, maggiore sarà la fiducia che trasmette e più elevate le vendite.

Il meccanismo profondo che sottende queste dinamiche è colto dalla società di ricerca e analisi di mercato Ipsos nel rapporto Most Influential Brands, dal quale risulta che il 63% degli intervistati sostiene di attribuire sempre maggiore importanza al marchio: «il consumatore contemporaneo, senza più i forti valori di appartenenza tradizionali, ci trova un nuovo elemento d’identificazione e, in alcuni casi, un vero e proprio facilitatore e alleato nella vita di tutti i giorni». Non a caso ai primi posti della classifica tra gli «alleati nella vita» troviamo i grandi marchi del digitale – Facebook, Amazon e Google – e subito dopo molti prodotti alimentari. In testa Nutella e parmigiano reggiano, o marchi come Barilla e Mulino Bianco.

L’identità si crea con il marketing e la pubblicità, in televisione o sugli scaffali dei supermercati, dove le marche conosciute hanno un posto in prima fila, perché i vari tipi di consumatori hanno bisogno soprattutto di sicurezze. Prendiamo ad esempio il Brand Fan. Secondo il già citato rapporto di GFK[2], questo cliente cerca sempre il meglio e acquista le grandi marche perché gli danno garanzia di qualità e gli offrono quegli elementi sovrastrutturali – packaging, pubblicità e servizio – che lo gratificano.

Il Brand Fan è il consumatore più desiderato dalla Grande distribuzione perché ha un potere d’acquisto non indifferente e vive il momento della spesa come un’esperienza. Riempie il carrello di succhi di frutta, vini costosi, prodotti biologici con involucri verdi e marroni che richiamano il senso di natura e rispetto dell’ambiente. Compra sale rosa dell’Himalaya e uova da allevamento a terra. Nella corsia dei dolci e dei biscotti, afferra una scatola di cereali sulla cui confezione campeggiano disegni di animali dell’ultimo cartone animato trasmesso al cinema. Legge con attenzione ogni dicitura, anche la più piccola, come se stesse cercando qualche informazione segreta che si nasconde nella ricetta per la preparazione del prodotto che ha in mano.

Ma non è solo il Brand Fan a fare una spesa più consapevole e attenta. In generale, il consumatore moderno – a prescindere dal suo potere d’acquisto – è informato, non più soggetto passivo di una comunicazione unidirezionale delle imprese. Esercita il suo diritto di scegliere e di interagire con il produttore. Dagli anni di Carosello a oggi molto è cambiato. Soprattutto, si è ridotta l’asimmetria comunicativa tra consumatore e venditore e quest’ultimo deve tenerne conto, anzi non può farne a meno. Come nel caso dell’olio di palma, l’ingrediente la cui presenza – o meglio, assenza – ha modificato un’intera fetta di mercato.

Basta scorrere la corsia dei prodotti per la colazione per vedere come ormai una miriade – l’assoluta maggioranza – riporti sulla confezione la dicitura «senza olio di palma». Non si tratta di un bollino come quelli del biologico, né di una certificazione o di un disciplinare IGP o DOP, ma di una semplice scritta messa lì senza alcun obbligo di legge. Una dicitura diventata rassicurante al pari di un grande brand.


Note

[1] Censis, 52° rapporto sulla situazione sociale del paese, FrancoAngeli, Milano 2018.

[2] ADM, I nuovi processi d’acquisto, ricerca presentata in occasione dell’incontro Marca del distributore: quali opportunità per l’industria?, Bologna, 18 gennaio 2017, http://adm-distribuzione.it/pdf/GFK-PRESENTAZIONE.pdf.

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