Le elezioni spagnole del 28 aprile aprono una nuova fase per il paese iberico. Incerta, senza dubbio. Ma il segnale è chiaro: vi è stata una vera e propria mobilitazione della Spagna progressista contro la possibilità di un governo di destra in cui avrebbe giocato un ruolo importante Vox, la formazione di estrema destra guidata da Santiago Abascal che guarda a Salvini, Le Pen, Bolsonaro e Bannon. I risultati delle elezioni regionali andaluse del mese di dicembre con l’inatteso ingresso in scena di Vox (11% dei consensi) e la successiva formazione di una giunta regionale di destra – per la prima volta in una storica roccaforte socialista – hanno portato molti spagnoli al voto. Il rischio reale era di uno scenario simile a livello nazionale. La partecipazione è così aumentata del 6% rispetto a tre anni fa, raggiungendo il 75,7% degli aventi diritto, e ha premiato il Partito Socialista Obrero Español (PSOE).
Nel complesso, le sinistre (PSOE e Unidas Podemos, UP) sommano appena 44mila voti in più della destra, ma questa, per la prima volta divisa in tre tronconi – Partido Popular (PP), Ciudadanos (C’s) e Vox –, perde oltre tre punti percentuali e 22 seggi rispetto al 2016, fermandosi a 147 deputati (le sinistre ne ottengono 165). La frammentazione dello spazio conservatore è anche una delle ragioni del vero e proprio tracollo del PP (16,7%), che perde oltre 3,5 milioni di voti, passando da 137 a 66 seggi, il peggior risultato della sua storia. Voti che in buona parte sono andati a Ciudadanos (15,9%, 57 deputati) e, soprattutto, al partito di Abascal (10,3%, 24 deputati e quasi 2,7 milioni di voti). Per la prima volta dalla fine del franchismo una formazione di estrema destra entra nelle Cortes di Madrid, mettendo fine all’eccezione spagnola nel contesto europeo.
Il vero vincitore di queste elezioni è dunque il Partito Socialista, risorto da una crisi iniziata alla fine dell’epoca Zapatero: con il 28,7% – oltre due milioni di voti in più rispetto al 2016 – e 123 seggi Pedro Sánchez si assicura la continuità al governo, dopo la breve esperienza nel palazzo della Moncloa degli ultimi nove mesi. La vittoria è ancora più completa se si tiene conto che il PSOE ha ottenuto anche la maggioranza assoluta al Senato e, insieme ai regionalisti di Compromís e Podemos, si mantiene al governo della regione di Valencia, dove si sono tenute elezioni amministrative. Con 81 seggi in più di Unidas Podemos (prima la differenza era di appena 14), Sánchez allontana così, forse definitivamente, il rischio del sorpasso del partito di Pablo Iglesias che retrocede (14,3%, 42 seggi), ma evita la debacle paventata da molti, conservando oltre 3,7 milioni di voti.
Quello per il PSOE non è stato però solo un voto utile contro la destra: il leader socialista ha dimostrato di saper governare, guardando a sinistra e applicando politiche che la socialdemocrazia sembra aver dimenticato in gran parte d’Europa, con l’eccezione del Portogallo, e di avere un progetto per il paese, cercando di ricucire la profonda frattura territoriale esistente con la Catalogna. La moderazione di Sánchez, che si è contrapposta ai toni apocalittici di una destra sempre più radicalizzata, è stata dunque premiata dall’elettorato. Il vero sconfitto non è solo il PP, ma anche il suo mentore, l’ex premier José María Aznar, che da dietro le quinte ha soffiato sul fuoco, favorendo il risorgere di un nazionalismo spagnolo che chiede la mano dura con gli indipendentisti catalani e una forte ricentralizzazione dello Stato. Il voto del 28 aprile dimostra invece che più che il rischio della rottura della Spagna – per lo strappo catalano – ciò che ha mobilitato di più l’elettorato è stata la paura dell’estrema destra.
La predilezione della maggioranza della popolazione spagnola al dialogo nella crisi catalana spiega anche i risultati nella regione di Barcellona, dove i socialisti diventano il secondo partito e il centro-sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC, 24,6% dei voti a livello regionale) vince per la prima volta le elezioni politiche, mandando alle Cortes di Madrid 15 deputati. ERC rappresenta ora infatti il settore più pragmatico e moderato dell’indipendentismo catalano contrapposto al settore intransigente di Junts per Catalunya (JxCAT, 7 deputati, 12% dei voti a livello regionale), la formazione guidata dall’ex presidente Carles Puigdemont, rifugiatosi in Belgio dopo la dichiarazione di indipendenza dell’ottobre 2017. Il partito di Oriol Junqueras, incarcerato e sotto processo a Madrid per i fatti di quell’autunno, si è convertito così nella forza egemonica dello spazio indipendentista.
Il PSOE, a cui mancano 53 seggi per avere la maggioranza nelle Cortes di Madrid fissata a quota 176, ha ora tre opzioni. O un governo di minoranza con accordi a geometria variabile – la formula preferita da Sánchez –, o un governo di sinistra – con Unidas Podemos e l’appoggio di alcune formazioni regionaliste, come vorrebbe Iglesias – o un governo con Ciudadanos. Quest’ultima possibilità, suggerita insistentemente dai poteri economici-mediatici e dalle istituzioni europee, sembra però la più remota: da un lato, il leader di Ciudadanos, Albert Rivera, ha praticamente rotto le relazioni con Sánchez ed è più interessato a conquistare l’egemonia nella destra spagnola; dall’altra, gli elettori socialisti hanno fatto capire a Sánchez, perfino durante i festeggiamenti della notte elettorale, che non vogliono assolutamente un patto con Rivera.
Qui entra in gioco la crisi catalana, visto che i deputati indipendentisti possono avere un ruolo non secondario. Non sono più indispensabili come negli ultimi nove mesi – il loro voto contro la legge di bilancio è stato la causa delle elezioni anticipate –, ma è necessaria almeno una loro astensione per permettere a Sánchez di essere presidente. ERC potrebbe dunque essere la chiave della stabilità della nuova legislatura. Non sarà facile per il leader socialista tenendo conto dell’opposizione di destra, che gli rinfaccerà di “svendere” la patria ai separatisti, e delle possibili richieste degli indipendentisti (un’assoluzione dei loro leader sotto processo e un referendum di autodeterminazione). Saranno cruciali a questo proposito i risultati delle elezioni europee e amministrative – si voterà in tutti i Comuni e in 12 regioni su 17 – del prossimo 26 maggio, un vero e proprio secondo round di questo 28 aprile. Fino ad allora nessuno scoprirà le proprie carte, men che meno Pedro Sánchez.
Il voto spagnolo, in conclusione, dimostra tre cose. In primo luogo, che l’asse sinistra-destra, che molti considerano una reliquia novecentesca, è più attuale che mai: la Spagna esce spaccata a metà da queste elezioni. In secondo luogo, che la socialdemocrazia, quando abbandona il blairismo e guarda davvero a sinistra, recupera voti e può essere una forza di governo. Vedasi anche il Portogallo di António Costa. In terzo luogo, che l’errore più grande per la destra liberale e conservatrice è quello di radicalizzarsi e abbracciare l’estrema destra: in questo modo non si fa altro che legittimare i nazional-populisti e favorirne l’ascesa, venendo divorati. Sono questi gli insegnamenti del voto spagnolo all’Europa in vista delle elezioni del 26 maggio. Non è poco.