Il patrimonio gastronomico, che reclama di essere annesso tra le pratiche “culturali”, “identitarie”, “regionali”, addirittura “nazionali”, dove parte della legittimità deriva proprio dalla sua iscrizione storica è di fatto una nozione relativamente nuova. Bisogna infatti attendere l’avvento del fenomeno del turismo alla fine del XIX secolo, con la diffusione delle prime ferrovie e con l’automobile poi nella prima metà del XX secolo, affinché si impongano una serie di ristoranti ubicati proprio sulle rotte turistiche (la cosiddetta “nazionale 6”, per esempio, che congiunge Parigi alla Costa Azzurra), o in regioni lontane dalle grandi città, che vanno dunque concretamente a reinventare una cucina regionale capace di soddisfare gli standard gustativi di una borghesia in viaggio o in villeggiatura. In questo senso la gastronomia, come insieme di prodotti e di pratiche legate a un territorio, a una cultura, è prima di tutto figlia del turismo. È infatti il turismo che la fa entrare nella check list identitaria di un territorio, a fianco dei monumenti, del folklore, dell’inno e della bandiera nazionale. Bisogna attendere che la mobilità delle persone si faccia normalità perché nasca l’idea che la gastronomia debba per forza avere un’origine, provenire insomma da qualche parte. I greci non mangiano insalate dette “greche”, i turisti invece sì. E ancora, le cosiddette French Friesdegli americani, non sono altro che semplici patatine fritte viste dalla Francia.
Intorno alla fine del XIX secolo, egualmente legata alla diffusione del turismo, prende forma anche la nozione di patrimonio, inizialmente rivolta ai monumenti storici. Essa rappresenta l’appropriazione concreta da parte del popolo di edifici dell’aristocrazia, al fine di costruire un racconto collettivo della storia nazionale, non più unicamente delimitato all’ambito monarchico e aristocratico. È oramai il popolo che fa la storia, e dunque anche i monumenti storici sono parte del suo patrimonio.
È attraverso l’ampliamento del concetto di patrimonio verso oggetti meno nobili, proprio allo scopo di nobilitarli (il patrimonio industriale, il patrimonio della cultura popolare), verso beni non materiali e pratiche culturali (la musica, i miti ecc.), che la gastronomia si è vista, anch’essa, recentemente qualificata come patrimonio. Questa distinzione tra patrimonio materiale e immateriale si è definita in Francia negli anni Settanta, sviluppandosi poi anche in seno all’Unesco negli anni Novanta. Più recentemente, alcuni prodotti alimentari, proprio per le loro caratteristiche “universali”, sono entrati a far parte del patrimonio mondiale immateriale dell’Unesco, come il “pasto gastronomico alla francese”. Tuttavia siamo davanti a una contraddizione, perché con il termine gastronomia si designano inizialmente le pratiche alimentari degli aristocratici, elitiste e distintive. Il patrimonio gastronomico non è dunque una fotografia neutra delle pratiche culinarie di un paese, ma si inscrive da un lato all’interno di un processo di democratizzazione del “ben mangiare” – ovvero di diffusione della qualità alimentare, per come la intende la borghesia urbana, in parte applicata a prodotti storicamente non distintivi (si veda il movimento della gastronomia regionale tra le due guerre) – e dall’altro in un processo di invenzione e creazione delle tradizioni per mano di produttori preoccupati di promuovere i loro prodotti e il loro territorio.
Il patrimonio gastronomico è spesso strumento di naturalizzazione e di legittimazione di lotte economiche e politiche per la definizione della qualità alimentare. Queste dispute si distinguono per la definizione di etichette private o pubbliche difese dal potere dello Stato, riservando la produzione di un certo prodotto a un gruppo di produttori piuttosto che a un altro; oppure per la produzione di svariate iniziative commerciali (campagne pubblicitarie, costruzione del folklore, come le confraternite, o le feste) al fine di nobilitare un prodotto di mercato.
Per esempio, la nozione di terroir, così cara agli enofili, incarna perfettamente le contraddizioni sinora esposte. All’inizio del XX secolo, la parola terroirera considerata peggiorativa per il vino; oggi invece ne incarna l’eccellenza, e difende l’idea che il vino non possa essere prodotto altrove, perché è prima di tutto il risultato unico e ancestrale di un determinato suolo. Non si poteva fare di meglio per monopolizzare un nome. Ma che cosa beviamo in questi vini del terroir? Una terra di fatto particolarmente adatta alla cultura della vite, oppure il prodotto di lotte politiche, economiche e culturali, una somma di interessi economici naturalizzati, ai fini di monopolizzare, per mano di un gruppo di produttori, il nome di una regione, o di un paese, come sinonimo di rendita economica?
Gilles Laferté
Direttore di Ricerca INRA (Istituto Nazionale di Ricerche Agronomiche)
Approfondimenti
Per approfondire le argomentazioni trattate nell’articolo, venerdì 27 Marzo 2015, dalle ore 9:30/13:30 alle ore 14:30/17:40 si è tenuto un Workshop dedicato alla Cultura e all’estetica del cibo presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca (Auditorium Guido Martinotti, Edificio U12, via Vizzola 5).
L’incontro ha avuto lo scopo di approfondire la sociologia della costruzione dei gusti e disgusti alimentari, attraverso il modellamento culturale dell’esperienza sensoriale. Quali sono i nuovi confini dell’antropologia?
Ne abbiamo discusso con gli ospiti di Laboratorio Expo, un progetto di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ed Expo Milano 2015 curato da Salvatore Veca.