Università IULM di Milano

Pubblichiamo qui un estratto dello studio Le fondamenta sociali della felicità a firma di Emanuele Felice e realizzato dall’Istituto Cattaneo per Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Il testo integrale sarà a breve presentato nell’eBook della serie Conseguenze del futuro con il titolo Salute: sulla nostra pelle.


L’idea di una relazione a campana fra reddito e felicità (si tratta del paradosso codificato da Richard Easterlin nel 1974[1] che individua una relazione a U rovesciata fra reddito e felicità) è oggi ampiamente accettata dalla letteratura specialistica e risulta confermata da numerosi studi empirici. Per quel che a noi compete, possiamo ricavare da questa semplice funzione un primo spunto importante, con riferimento alla storia economica di più lungo periodo ma, volendo, pure per valutare la condizione umana nelle economie dell’oggi.

Negli ultimi due secoli, l’enorme innalzamento dei redditi avviato a partire dalla rivoluzione industriale, cioè con l’applicazione sistematica della scienza e della tecnologia alla soluzione dei problemi economici, ha reso possibile, per la prima volta in tutta la storia umana, la fuoriuscita dall’indigenza materiale. Ha spalancato quindi le porte di una felicità possibile, terrena e «pubblica» (come dicevano gli illuministi italiani del Settecento), garantendole quantomeno la prima gamba (gli altri due fattori decisivi sarebbero rappresentati dalla qualità delle relazioni umani e dalla possibilità di dare un senso alla vita, ndr): il benessere materiale.

Per inciso, in questo benessere vi è una dimensione fondamentale che è puramente «fisica», o biologica, occupano cioè un posto centrale le condizioni di salute, ambito in cui nello stesso periodo si è prodotta una rivoluzione analoga a quella dei redditi: a partire dall’Ottocento in poi la mortalità, specie quella infantile, è crollata, per la riduzione esponenziale del peso delle malattie infettive, grazie ai vaccini, alle infrastrutture sanitarie e poi agli antibiotici. Mentre la speranza di vita si allungava (dal 1820 a oggi, nel mondo è passata da 29 a circa 70 anni), le malattie infettive sono state gradualmente sostituite dalle malattie croniche (i tumori, i problemi cardiovascolari) come principale causa di morte – l’unica eccezione significativa negli ultimi decenni è stato l’Aids, soprattutto per i paesi africani. Si è trattato di un processo globale, che ha interessato tutti i continenti e le regioni, anche se ovviamente a ritmi e con intensità diverse: inizialmente nei paesi avanzati, poi nelle economie meno sviluppate dove, però, qui nella longevità la convergenza è cominciata prima che nel reddito (già intorno alla metà del Novecento)[2]. In Europa, dove la speranza di vita supera ormai gli 80 anni, le malattie croniche sono responsabili di quasi il 90% dei decessi[3].

Le condizioni di salute della popolazione sono quindi profondamente cambiate, non soltanto nei paesi avanzati. Oggi si vive molto più a lungo che agli albori della rivoluzione industriale, in sostanza perché si muore meno, soprattutto in giovane età. La popolazione umana è cresciuta enormemente. Siamo più numerosi, quindi, ma anche più ricchi in media, e godiamo di migliore salute: generalmente, arriviamo a un’età avanzata uno stato fisico assai migliore che in passato. Questo anche al netto del paradosso che oggi, nel mondo, vi siano più persone che soffrono per seri problemi di sovrappeso (1,5 miliardi) che per malnutrizione (900 milioni), o del fatto che, nelle economie sviluppate e anche in quelle emergenti, si muoia più per il troppo cibo (l’obesità) che per la sua mancanza (la malnutrizione), ben quattro volte tanto (quattro milioni versus un milione, all’anno; ma dal conto è esclusa l’Africa sub-sahariana, con la quale i morti complessivi per malnutrizione superano gli 8 milioni)[4].

Il benessere materiale è però, solo la prima parte, il lato ascendente della relazione a U di Easterlin. A tale aspetto si affiancano poi relazioni umane non obbligate dai bisogni materiali e la libera ricerca di un significato, o di più significati, nella vita.

La dimensione affettiva, quella sociale in senso più ampio, è fondamentale per la nostra realizzazione, come era ben noto già ai filosofi greci. Ma l’importanza delle relazioni umane è stata sottolineata anche da lavori recenti, di taglio empirico. Uno studio in particolare merita di essere citato, per la sua profondità di analisi e anche per l’ampiezza temporale. Si tratta della ricerca What Makes a Good Life? Lessons from the Longest Study on Happiness, sviluppata nell’ambito dell’Harvard Study of Adult Development, in Massachusetts. Avviata nel 1938, è andata avanti per 77 anni interessando continuativamente più di settecento uomini (cui in un secondo momento si sono aggiunte le donne), scelti sia nel gruppo più benestante degli studenti di Harvard, sia fra i ragazzi dei quartieri più poveri di Boston. Tutti sono stati esaminati in maniera continuativa attraverso interviste (un metro soggettivo), bollettini medici e altri indicatori bio-fisici (parametri oggettivi). L’esito è stato piuttosto netto: la qualità della nostra vita relazionale contribuisce a mantenerci felici e anche relativamente più in salute[5], due aspetti fra l’altro correlati.

Ora, come fare a stabilire relazioni umane che migliorino la nostra felicità e anche la nostra salute? Al di là degli ovvii aspetti personali e individuali, è possibile fare un discorso «sociale», e quindi di tipo storico, anche su questo tema? In realtà una chiave interpretativa può essere proprio il rapporto che si è andato intessendo con il reddito, cioè con l’enorme innalzamento del benessere materiale che abbiamo avuto negli ultimi due secoli. Si può pensare di coniugare benessere materiale (reddito e salute) con relazioni umane che contribuiscano a dare senso alla vita?

Oltre che sul passato, la sfida naturalmente è aperta anche per il presente e il futuro, tutt’altro che scontata. Lo è innanzitutto, sarà bene premettere, perché nel mondo vi sono ancora quasi un miliardo di persone che vivono in condizioni di povertà estrema (ma il numero è in diminuzione); o perché la stessa crescita economica, lungo un percorso lineare che non ammette limiti, rischia di collassare nella catastrofe ambientale. Ma poi specialmente, e qui veniamo a un altro punto fondamentale, perché non è affatto scontato che all’avanzamento economico si debba accompagnare un miglioramento nell’etica e nelle relazioni umane: le libertà civili e politiche, la progressiva conquista dei diritti umani che consente alla nostra vita di «fiorire» una volta superate le costrizioni materiali, non sono il portato dello sviluppo economico e tecnologico, non necessariamente almeno (…).


[1] R.A. Easterlin, Does Economic Growth Improve the Human Lot? Some Empirical Evidence, in R. David e R. Reder (a cura di), Nations and Households in Economic Growth: Essays in Honor of Moses Abramovitz, London, Academic, 1974, pp. 89-125, e R.A. Easterlin, Will Raising the Incomes of All Improve the Happiness of All?, in «Journal of Economic Behavior and Organization», vol. 27, n. 1, 1995, pp. 35-47.

[2] L. Prados de la Escosura, World Human Development: 1870−2007, in «Review of Income and Wealth», vol. 61, n. 2, 2015, pp. 220-247.

[3] Sulla mortalità: D. Cutler, A. Deaton e A. Lleras-Muney, The Determinants of Mortality, in «Journal of Economic Perspectives», vol. 20, n. 3, 2006, pp. 97-120. Sulla speranza di vita: J.C. Riley, Estimates of Regional and Global Life Expectancy, 1800-2001, in «Population and Development Review», vol. 31, n. 3, 2005, pp. 537-543. Per gli anni recenti, rimando all’ampia batteria di indicatori, per paese, riportati sul sito della World Health Organization, http://www.who.int (ultimo accesso marzo 2019).

[4] GBD 2017 Disease and Injury Incidence and Prevalence Collaborators, Global, regional, and national incidence, prevalence, and years lived with disability for 354 diseases and injuries for 195 countries and territories, 1990–2017: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2017, in «The Lancet», vol. 392, n. 10159, 2018, pp. 1789-1858. GBD 2015 Obesity Collaborators, Health Effects of Overweight and Obesity in 195 Countries over 25 Years, in «New England Journal of Medicine», vol. 377, n. 1, 2017, pp. 13-27.

[5] Si può visionare online un’accurata presentazione di questa ricerca: R. Waldinger, What Makes a Good Life? Lessons from the Longest Study on Happiness, Ted, novembre 2015, http://bit.ly/1QI5o7B (ultimo accesso marzo 2019).

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