Professor Felice, lei ha esplorato molto la dimensione storica dello sviluppo economico. Quali i “turning-points” più rilevanti in questa evoluzione? Quale può essere il giudizio sull’esperienza storica italiana rispetto ad altri paesi che in passato sono stati caratterizzati da pari livelli di disuguaglianza territoriale?
Prima dello sviluppo economico moderno, che da noi è cominciato alla fine dell’Ottocento, i divari di reddito fra le regioni italiane non erano particolarmente pronunciati. Una certa differenza fra Nord e Sud vi era già, ma non così forte come sarebbe diventata in seguito; piuttosto erano molto diverse fra Nord e Sud le pre-condizioni dello sviluppo (capitale umano e sociale, infrastrutture), che poi avrebbero favorito il decollo del «triangolo industriale». Tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, quando appunto inizia lo sviluppo economico moderno, i divari aumentano tutto sommato a ritmo contenuto, specialmente perché le regioni più povere del Sud hanno una massiccia emigrazione che consente una tenuta almeno in termini di reddito medio (per coloro che restano). L’epoca di massima divergenza è invece quella fra le due guerre, quando il Nord continua a industrializzarsi, il Sud rimane al palo, ancorato al latifondo estensivo a base cerealicola (l’altra faccia della Battaglia del grano), e non ha nemmeno più la «valvola di sfogo» dell’emigrazione. Alla vigilia del miracolo economico, in termini di reddito per abitante la penisola appare chiaramente divisa in tre macro-aree: il Nord-Ovest in cima, il Nord-Est e Centro in mezzo, il Sud e isole in fondo. Un terzo momento di svolta è il miracolo economico: in questo periodo, dagli anni Cinquanta ai primi anni Settanta del secolo scorso, il Mezzogiorno avvia in effetti un processo di convergenza, l’unico della sua storia, benché lento e anche costoso: grazie soprattutto all’intervento dello Stato che, con la Cassa per il Mezzogiorno e l’impresa pubblica, porta qui l’industria moderna. La convergenza si interrompe però negli anni Settanta, non solo perché entra in crisi il modello fordista impiantato (anche) al Sud, ma soprattutto perché l’intervento pubblico progressivamente si imbriglia nelle logiche della politica clientelare e non riesce più a risultare incisivo, mentre la classe dirigente del Mezzogiorno continua a essere orientata prevalentemente alla ricerca di posizioni di rendita, anziché al rischio d’impresa che punta al mercato. Questo è il quarto e ultimo punto di svolta, le cui conseguenze si trascinano fino all’oggi: il Mezzogiorno smette di convergere, mentre, dall’altro lato, il Nord-Est e anche il Centro si avvicinano sempre più al Nord-Ovest, tanto che si forma in sostanza un unico Centro-Nord, almeno stando al reddito medio. L’Italia appare di conseguenza divisa in due. Questo risultato è abbastanza singolare anche rispetto ad altri paesi: nessuna grande economia dell’Europa occidentale, nemmeno la Germania o la Spagna, ha oggi al suo interno un divario di reddito così pronunciato, che vede un’area in ritardo di sviluppo geograficamente (e storicamente) ben definita, in cui vive un terzo della popolazione. Di più. Con il doppio di abitanti della Grecia, o del Portogallo, il Sud Italia è oggi la più grande area in ritardo di sviluppo di tutta l’Europa occidentale.
Alcune risposte elaborate dai governi più recenti sono state caratterizzate dalla ricerca di un riaccentramento di competenze politiche nelle mani dello Stato centrale, con l’idea che questo potesse essere meglio in grado di gestire la situazione di squilibrio territoriale presente. Al di là del maggiore o minore successo che queste possono ricevere lei pensa che sia la strada più adeguata? Quali strategie alternative a riguardo?
Intendiamoci: le regioni, istituite nel 1970, al Sud sono state un sostanziale fallimento. Così come lo sono state, salvo qualche eccezione ovviamente, le politiche di decentralizzazione condotte a partire da allora. Per queste ragioni, io non credo che l’idea di un riaccentramento verso lo Stato, perlomeno in alcuni ambiti, non sia peregrina. Nella gestione e soprattutto nella programmazione dei fondi europei, ad esempio, il riaccentramento è fondamentale. Ma credo anche che nella scuola e nella sanità, in linea di massima il regionalismo al Sud non abbia dato buoni frutti, e bisognerebbe tornare a una gestione nazionale (come è stato peraltro nei periodi migliori della storia d’Italia). Ciò detto, è vero che nei passati governi vi è stato un tentativo di riaccentrazione, ma questo è rimasto, appunto, un tentativo: la riforma costituzionale di Renzi, che superava le competenze concorrenti fra Stato e Regioni a favore del primo non è mai entrata in vigore; sul versante dei fondi europei, l’Agenzia per la coesione territoriale in concreto non ha poi avuto quell’ambizione strategica (avocare a sé le competenze di programmazione e gestione dei fondi) cui i suoi ideatori avevano pensato, limitandosi a un controllo contabile sull’operato delle regioni. Ora vedo che, con l’autonomia differenziata, si sta andando in direzione opposta rispetto a un riaccentramento: accentuare ancora di più il regionalismo. Su questo l’esperienza storica del Mezzogiorno non lascia ben sperare. Ma staremo a vedere. In fondo non è nemmeno da escludere che, costretti da necessità, i cittadini meridionali acquistino consapevolezza e comincino a votare per classi dirigenti all’altezza delle sfide da affrontare, ma a me francamente pare improbabile (inoltre non è solo una questione di volontà e capacità politiche, ma anche di risorse).
Ha scritto a proposito del rapporto tra sviluppo economico e felicità. Sarebbe in grado di dirci come entra in questa relazione la dimensione politica, con riferimento ai principali paradigmi ideologici di politica economica che si sono avvicendati nel corso del tempo?
La dimensione politica è centrale perché, oltre a garantire lo sviluppo economico, è quella che poi può tradurre lo sviluppo economico in sviluppo umano, coniugando quindi crescita dell’economia ed espansione dei diritti dell’uomo. I diritti sociali, i diritti civili di seconda generazione, quelli ambientai e quelli umani “allargati”: lo sviluppo economico crea le premesse, ma spetta poi alla politica concretizzarli, dando quindi forma alla visione della felicità propria del pensiero liberal-democratico e social-democratico (si ricollega alla fioritura umana di Aristotele, passa per lo Stoicismo e matura nell’Illuminismo: ma per la riflessione etico-economica del nostro tempo si guardino i lavori di Amartya Sen, o di Martha Nussbaum).
Ma la medesima dimensione politica può prendere altre strade. Può puntare solo alla crescita economica e allo sviluppo tecnologico, ma trascurare i diritti umani, considerandoli in sostanza d’intralcio. Questo è avvenuto in passato, specie con riferimento ai diritti politici e civili: valga per tutti il caso del nazismo. Ma si verifica anche oggi, sebbene in forme più blande: si pensi alla Cina, agli Emirati Arabi Uniti, o anche a certi discorsi delle formazioni populiste europee. Questo infine si osserva anche in Occidente, negli ultimi decenni, con riferimento ai diritti sociali: una politica economica che pensa alla crescita ma non si cura delle disuguaglianze persegue una visione dello sviluppo economico e tecnologico ugualmente totalizzante; una visione che non si traduce in felicità, non in quella intesa come «fioritura» o «sviluppo» umano per il maggior numero possibile di individui.
Quali sono a suo giudizio gli scenari che abbiamo di fronte rispetto alle attuali strategie adottate dagli Stati nazionali per affrontare le trasformazioni del mercato del lavoro e dei sistemi produttivi?
Noi siamo agli inizi di una nuova rivoluzione tecnologica, guidata dall’Intelligenza artificiale, che probabilmente avrà un notevole impatto sul mercato del lavoro e sui sistemi produttivi – e in parte lo sta già avendo. Mentre le precedenti rivoluzioni tecnologiche avevano ridotto il lavoro di tipo manuale, nell’agricoltura e nell’industria, trasferendo quindi l’occupazione sui servizi, l’Intelligenza artificiale probabilmente ridurrà il lavoro intellettuale, portando quindi alla scomparsa o al ridimensionamento di molte attività dei servizi. Non sappiamo attualmente se queste saranno rimpiazzate da nuovi lavori (come avvenuto in passato), o se semplicemente scompariranno (non sempre la storia si ripete). Come che sia, sono sfide di enorme portata, che si intrecciano con i processi di delocalizzazione pure trainati da enormi innovazioni tecnologiche (oggi i costi di trasporto sono enormemente ridotti, ma, soprattutto, quelli di comunicazione sono praticamente azzerati): gli stati nazionali non sono in grado di affrontarli, non singolarmente. Sono necessarie politiche fiscali comuni o quantomeno coordinate. Lo stesso vale per le politiche di welfare e in parte anche per le politiche dell’innovazione. In quanto a integrazione pacifica e democratica, fra gli stati nazionali, noi in Europa ci siamo portati più avanti di qualunque altra area del mondo, ma c’è ancora molto da fare.