Università degli Studi di Milano

Interrogandosi sulle categorie di “fascismo/neofascismo” o “postfascismo” nell’attuale mondo occidentale, in un interessante dialogo del 2017 pubblicato recentemente in italiano, Enzo Traverso e Régis Meyran convenivano di trovarsi davanti ad un contesto in piena evoluzione: mondi “regressivi”, plurali, figli di “un fenomeno transitorio in trasformazione” ma “non ancora cristallizzato”. Un utile spunto per leggere il rapporto tra democrazia e destre plurali nel contesto socio-politico occidentale odierno?

Il dibattito è aperto ma, certamente, si tratta di un tema da discutere collettivamente, attraversando la nostra realtà storico-sociale in modo pubblico, laico e multidisciplinare. In tale direzione, molto è stato fatto o detto, proprio in Italia, il paese che per primo ha vissuto, dal 1994 al 2012, la comparsa e la strutturazione di una duratura sinergia tra “destre”. Un tempo lontano? Forse. Ma non troppo.

Cogliendo infatti questo passaggio, politologi come Piero Ignazi, a metà degli anni Novanta, non a caso, raccomandavano di “uscire dagli schemi interpretativi classici” guardando al carattere “postindustriale” di questi fenomeni politici, proprio perché “interpretano domande e prospettano soluzioni (benché miracolistiche) della società contemporanea, non di quella d’anteguerra”. Marco Revelli, nello stesso periodo, si spingeva ancora oltre, parlando – riguardo a quelle che al tempo venivano un po’ ingenuamente definite “nuove destre” – di una tendenza a sviluppare nella globalizzazione culture ferocemente antidemocratiche di tipo nuovo. Nasceva la categoria storico-politologica di “destre postfordiste”, figlie cioè di quella “controrivoluzione liberista”, affermatasi dagli anni Ottanta, che a partire da una “nuova logica autoritaria dell’impresa” rivendicava una “macchina statale che deve rinunciare agli alti costi di mediazione” oltre che un modello politico definibile – per usare le parole di Patrick McCarthy – come “populismo autoritario”. A distanza di qualche decennio, questa gabbia interpretativa è ancora di schiacciante attualità. Piuttosto che interrogarsi unicamente sulla salute della memoria civile delle nostre società, sarebbe più utile, forse, analizzare la forza o la natura delle destre radicali e identitarie di oggi a partire da elementi strutturali come: la riorganizzazione del mercato del lavoro globale, l’aumento costante della finanziarizzazione dell’economia, l’impatto di massa della dimensione telematica nella comunicazione (e più recentemente nel piano socio-relazionale) o il carattere costante dei flussi migratori.
Se aggiungiamo a quanto già detto gli effetti, specie nell’UE, di un lacerante decennio di crisi economica globale (il declassamento dei sistemi formativi, la balcanizzazione/precarizzazione del ceto medio ad alta scolarizzazione, la sfaccettata crisi dello stato nazione e del sistema UE, la fine di una cultura socialdemocratica del welfare o la “rifeudalizzazione” della governance politica), l’attuale ritratto del rapporto tra destre radicali e società europee è completo.
Benedict Anderson sottolineava infatti come il nazionalismo e la violenta xenofobia già di Le Pen padre, del National Front inglese o degli estremisti neonazisti tedeschi post-unitari trovassero successo proprio nella costruzione di una Heimat immaginaria, fintamente autoctona e interclassista, generata da flussi di lavoro migrante dovuti al “contemporaneo capitalismo mondiale” e solo in piccolissima parte a guerre o conflitti sociali. Oggi, assistiamo ad un ulteriore fenomeno di degrado linguistico, culturale e, insieme, politico: temi, visioni, valori e suggestioni per decenni appannaggio esclusivo di ristrette cerchie intellettuali neofasciste, quando non neonaziste, sono diventati discorso comune dei partiti di destra di governo e linguaggio mainstream tranquillamente tollerato senza contraddittorio in televisioni e sul web.


Alla conquista dei proletari – L’Asino, 17-23 settembre 1922


Se mettiamo in fila il lessico delle destre nazional-populiste europee di oggi finiamo per renderci conto di come molti steccati tra conservatorismo e radicalismo identitario siano saltati (dalla ricca Scandinavia fino all’indebitata Europa mediterranea) a partire proprio dal laboratorio Italia. Il nostro Paese risulta quindi fondamentale per comprendere la dinamica di questo processo. In primis per quanto riguarda la centralità del concetto del “prima gli italiani”, slogan notissimo, coniato, prima di tutti in Italia, da CasaPound al tempo del Governo Monti ma oggi dispositivo linguistico di ogni ragionamento a destra sul welfare state e le politiche sociali pubbliche, sul modello di quello che fu la “preferenza nazionale” di Jean Marie Le Pen negli anni ottanta. Continuando poi con la teoria della “Grande Sostituzione Etnica” lanciata a cavallo della Crisi dal giornalista Renaud Camus (molto diffusa grazie alla forza comunicativa della Lega) per denunciare oscure regie finanziarie dietro l’attività delle ONG solidaristiche e l’aumento dei flussi migratori in particolare dall’Africa. L’obiettivo dei sostituzionalisti sarebbe infatti sovraccaricare il debito pubblico di alcune nazioni (con conseguente impoverimento e abbassamento dei livelli salariali) e la piena sostituzione degli autoctoni con migranti provenienti da altri continenti; il tutto con la copertura politica delle “sinistre radicalchic” e dei giornali liberal. Per non parlare del “complotto Gender”: perfida e subdola strategia mediatico-culturale anglosassone per alterare la visione tradizionale della famiglia (colpendo la natalità dei popoli) e rendere dominante un immaginario meticcio, multiplo e plurale dal punto di vista dei rapporti e delle identità di genere; un tema questo già presente nel dibattito del suprematismo bianco statunitense negli anni novanta. Tutte visioni queste che rimbalzano stabilmente nelle campagne delle destre plurali (italiane e europee), dai grandi partiti (anche di governo) fino alle piccole organizzazioni giovanili militanti e che, tranquillamente, ingenerano discussione non solo nei social network ma trovano cittadinanza anche nei circuiti editoriali più conservatori, nei dibattiti televisivi urlati e, nel nostro Paese, nella stampa di destra più diffusa.

Non possiamo dimenticare di citare poi quanta eco si sia conquistata una narrazione della globalizzazione, della Crisi e delle dinamiche finanziarie semplificatoria e complottista che spesso arriva a rasentare argomentazioni dal sapore antisemita come dimostrano ad esempio le violente campagne politiche contro una figura come George Soros. Sul fronte strettamente teorico, infatti, possiamo riscontrare che mai tanto spazio e diffusione, consciamente e inconsciamente, ha avuto negli ultimi trent’anni la riflessione storico-filosofica evoliana sulla dicotomia Tradizione/Antitradizione (leggi differenza/uguaglianza) come lente per comprendere e affrontare il mondo globale in chiave più socialmente rigida, autoritaria e reazionaria (come sottolineato da tempo da Francesco Germinario). Possiamo notare infine come le formazioni giovanili più estreme stiano utilizzando in modo sempre più spudorato forme inedite di “abuso pubblico della storia”, per citare un volume di Aldo Giannuli. Non è un caso che i neofascisti italiani in questo decennio abbiano ricordato e maniacalmente discusso, con un capovolgimento totale del loro paradigma mitopoietico, più il rapporto Prima Guerra Mondiale/Fascismo che la RSI, rileggendo i propri riferimenti teorici e spirituali a partire dalla spregiudicatezza mussoliniana di annusare la società italiana e di agire nella violenta ristrutturazione capitalistica post-bellica. E anche le forze politico-partitiche più importanti a destra sono da tempo scese brutalmente nel campo del revisionismo storico, trasmettendo pubblicamente l’idea che la linea del Piave si trovi oggi a Lampedusa o manipolando la complessa vicenda storica istriana in senso nazionalistico. Tutti dispositivi linguistici che trovano sovente, nella superficialità della divulgazione web e nel continuo disinvestimento nel sistema formativo un contesto in cui muoversi in modo agile, pervasivo ed efficace. C’è dunque bisogno di riannodare un dialogo interrotto e porsi nuove domande? Sicuramente. Consapevoli però della responsabilità sociale e intellettuale di chi collettivamente prova a comprendere l’oggi non sganciandolo mai dai processi storici drammaticamente viventi nell’Europa della Crisi e nel mondo globale.

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