Secondo un’immagine stereotipata, abusata e fallace, che affonda le radici nel pregiudizio colonialista ripreso poi dalla visione modernista neo-liberale, l’Africa sarebbe sinonimo di “sottosviluppo” e “disordine”, dominio di strutture “tradizionali”, che rendono “ingovernabile” e “disfunzionale” il fenomeno di rapida crescita urbana che negli ultimi decenni contraddistingue e proietta il continente nel sistema internazionale.
Questa trasformazione avviene in un contesto di mancanza o scarsa industrializzazione, in quanto buona parte delle economie nazionali sono composte dal cosiddetto “settore informale” (vale a dire non regolamentato), entrando in forte contraddizione con i maggiori assunti dell’urbanizzazione che l’Occidente ha conosciuto nella sua storia. Proprio quest’idea di urbanizzazione senza sviluppo contribuisce a un’immagine delle città africane come luoghi di povertà o degrado irrecuperabili. E in quest’ottica, l’attenzione internazionale tende a concentrarsi su fenomeni quali la corruzione e la mancanza di strategie di sviluppo che regolino il fenomeno dell’urbanizzazione, rappresentata in maniera riduttiva da insediamenti non pianificati in cui masse di popolazioni sopravvivono come possono con i lavori più disparati. È questa l’“informalità urbana”.
Andrew Tshabangu; Traders and Taxis, from the series City in Transition, 2003. Courtesy the artist and Gallery MOMO
Sin dalla sua genesi, il termine “informale” è stato connotato in negativo, come qualcosa che sfugge per definizione a un ordine predefinito. Per poi esser ripreso e inserito in un paradigma neo-liberale, orientato alla crescita di mercato, con la pretesa di definire le pratiche economiche irregolari di piccola scala e, quindi, le esperienze di auto-costruzione degli insediamenti urbani, nel tentativo di racchiudere in una cornice normativa forme “alternative” o “dal basso” di produzione e gestione dello spazio urbano. Ma l’informalità urbana è qualcosa di più complesso da analizzare con attenzione, superando retoriche e facili etichette, perché attiene profondamente al potere e al politico.
L’informalità è infatti una modalità di sovranità e governo dello Stato e un modo capitalistico di produzione dello spazio, che genera asimmetrie nella valorizzazione degli spazi stessi. Lo Stato utilizza l’informalità come strumento di accumulazione e autorità, creando “stati” e “zone” d’eccezione al di fuori della legge in cui situa l’implementazione delle politiche locali di sviluppo, con il risultato che queste ultime si sclerotizzano in negoziazioni frammentate tra una pluralità di attori e interessi in gioco. In questa dinamica, le rivendicazioni di accesso allo spazio da parte di chi ne resta escluso sono più spesso contestate che ascoltate e non si trasformano in un’acquisizione di diritti, restando invischiate in procedure politiche arbitrarie e clientelari portate avanti dagli stessi attori statali.
Ne è un esempio il commercio informale a Johannesburg. Negli ultimi decenni, il processo di neoliberalizzazione delle autorità municipali ha prima considerato le attività informali come un fenomeno temporaneo da eliminare con “una crescita economica sostenibile”. Poi, grazie all’azione resiliente dei commercianti informali, ha elaborato discorsi più “integrati” di gestione, che si sono tradotti in una “incorporazione selettiva” funzionale agli interessi delle aziende che investivano nella riqualificazione del centro. Una soluzione che però ha continuato a produrre esclusione, criminalizzazione e marginalizzazione per la maggioranza degli stessi commercianti. Le autorità municipali hanno così esercitato il loro controllo e potere sui venditori di strada attraverso un’azione contraddittoria, che combina la retorica della partecipazione con l’applicazione repressiva della legge.
Nonostante ciò, i commercianti informali sono stati capaci di aprire e riconfigurare spazi e di combinare varie strategie nei rapporti con i diversi livelli dello Stato (municipale, regionale e nazionale), formando nuove, seppur embrionali, forme di azione e rivendicazione collettiva (piattaforme e forum) e creando alleanze strategiche con altre istituzioni e organizzazioni (sindacati, università, società private, organizzazioni no profit) per meglio rivendicare i propri diritti e proteggere le proprie attività.
Questo caso, come molti altri, dimostra come le azioni che gli attori sociali attuano in risposta a modi e politiche statali escludenti non andrebbero viste come aspetti residuali di forme di auto-organizzazione da riportare nell’alveo di una linea ideale, ma piuttosto come il modo in cui essi manifestano lo status che percepiscono di avere in rapporto alle istituzioni. Una forma di rivendicazione implicita di inclusione nell’arena pubblica, che proprio le istituzioni dovrebbero cogliere per tornare ad assumersi le proprie responsabilità di redistribuzione ed equità sociale.
Informal traders – Michelle Hakinson
Comprendere l’informalità urbana rappresenta quindi uno strumento per analizzare e contrastare i processi di differenziazione e polarizzazione socio-spaziale prodotti dalla liberalizzazione economica nelle città africane, come altrove.
Le città africane sono da considerarsi a tutti gli effetti un laboratorio di analisi per evidenziare le contraddizioni dei modelli della governance neo-liberale e superare le opposizioni binarie (tra norma ed eccezione, tra processi bottom-up e top-down, tra Nord e Sud del mondo), focalizzando l’attenzione sulle pratiche quotidiane cosiddette “informali”. Pratiche che sono sia relazionali, poiché intersecano e intessono diverse forme di interazione e relazione tra gruppi sociali eterogenei, sia multi-scalari, giacché transitano dal livello locale a quello trans-locale. Analizzarle nei loro impatti sugli spazi urbani disarticolando queste caratteristiche cruciali non ha solo un valore epistemologico – che permetterebbe di rilevare per deduzione importanti trasformazioni nelle abitudini sociali, negli stili di vita e nelle trasformazioni dei territori – ma specialmente politico. Rimette al centro, infatti, l’incredibile coesistenza di condizioni di vita precarie e innovative capacità di reazione. E dimostra come gli spazi urbani possano esercitare un’influenza determinante sui processi di cambiamenti politici, sociali e culturali, diventando il terreno d’espressione dei rapporti di potere tra coalizioni d’attori collettivi e individuali, pubblici e privati, locali, nazionali e transnazionali, in una molteplicità di settori che vanno dai servizi urbani, alla gestione fondiaria, dei mercati e delle infrastrutture, specialmente nei suoi nodi come le stazioni, fino alle politiche di proprietà, pianificazione territoriale e sicurezza.
È in questo senso che le città africane, oltre a essere luoghi di rigenerazione di risorse e di strategie di sopravvivenza, sono da interpretarsi come luoghi di mediazione di potere e, quindi, di elaborazione sociale e politica e d’invenzione culturale, in cui il modello di città neoliberale, per quanto prevalente, è contestato proprio dall’azione di coloro che sono tenuti ai margini. Fenomeno, questo, diffuso ben oltre “l’Africa”, dal momento che la cosiddetta globalizzazione capitalistica comporta di fatto, un po’ ovunque, problemi di “governance” nell’uso e nell’occupazione dello spazio urbano.
Taxi rnak di Andrew Tshabangu
Comprendere l’Africa significa oggi più che mai comprendere a partire dall’Africa, analizzando processi e questioni “globali”. Dalla mobilità umana che i flussi di migranti e nuovi residenti pongono continuamente nelle realtà urbane di tutto il mondo, alla scarsità di risorse a disposizione dei governi delle città (che mettono in discussione non solo la fornitura dei servizi, ma l’accesso stesso a una forma piena di cittadinanza), fino al problema della giustizia sociale di fronte a una sempre maggiore polarizzazione delle città con masse impoverite e ristrette élite arricchite.
L’appuntamento del 4 aprile in Fondazione Feltrinelli, dal workshop pomeridiano “Sopravvivere alla città. Apprendere dall’Africa” alla puntata conclusiva del ciclo l’Atlante delle città, dedicata al confronto tra Maputo e Napoli, segue questa prospettiva, cercando di spiegare la relazione specifica tra informalità urbana e processi di neoliberalizzazione attraverso ricerche di campo su diverse manifestazioni di “informalità urbana” in Africa, allo scopo di evidenziarne la rilevanza politica per comprenderne le relazioni che quei contesti possono avere con quelli a noi più noti e immaginare come costruire un terreno comune per nuovi processi democratici dentro e oltre le città africane.