Sin dagli studi di Maurice Halbwachs, la memoria è stata studiata nelle scienze sociali del ventesimo secolo come un fenomeno collettivo. La sua capacità creativa, né totalmente collettiva né solamente individuale, è una questione che ha alimentato le teorie filosofiche contemporanee della memoria.
Secondo la teoria anamnestica della giustizia del filosofo spagnolo Reyes Mate, l’obiettivo principale della memoria è affrontare l’ingiustizia delle vittime ed evitare che gli stessi errori si ripetano. La memoria è un antidoto alla barbarie perché inseparabile dalla giustizia come suprema virtù etica, e quindi implica un progetto educativo, vale a dire la formazione e la selezione di quel patrimonio di valori e di categorie che si desiderano trasmettere da una generazione all’altra per mantenere determinati vincoli di una comunità politica.
La memoria, tuttavia, è lungi dall’essere un magazzino di cose edificanti. La memoria è pericolosa, perché non risolve i problemi, ma piuttosto li complica, aprendo ferite e esponendoci all’amara constatazione che il nostro presente è costruito sopra molte ingiustizie e sconfitte. Per questo, i politici che conoscono il significato della memoria sono ben consapevoli del suo potenziale critico e sono molto diligenti nello sviluppare politiche di controllo della memoria.
Non c’è politico degno di questo nome che non persegua una politica della memoria o che non voglia addirittura creare una nuova memoria per mezzo di un nuovo calendario e di nuovi culti religiosi, come, durante la Rivoluzione francese, Robespierre aveva tentato di fare illusoriamente attraverso l’introduzione del culto dell’essere supremo.
Diceva Renan che tutti i popoli inventano il loro passato. I nazionalisti hanno successo e funzionano, proprio istituendo un passato assolutamente artificiale. Tutti gli Stati moderni si trovano a dover inventare il loro passato, come se avessero bisogno di grandi eroi e grandi feste con le quali identificarsi. Questo artificio diventa esplicito quando la memoria porta allo scoperto un passato assente, che guasta le feste del passato costruito sulle pratiche dei vincitori. Il passato assente è quello delle vittime che non poterono arrivare ad esistere e che, pertanto, non hanno altra difesa se non la memoria degli altri.
Su questo sfondo possiamo valutare a quale livello di aberrazione arrivano le recenti affermazioni del presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, che nel giorno di domenica 24 marzo, secondo il suo portavoce, avrebbe dato istruzioni al ministero della difesa perché le forze armate commemorassero nel modo più appropriato la data del colpo militare del 31 marzo 1964 – avvenuto, in realtà, nelle prime ore del 1˚ aprile, conosciuto in Brasile come giorno della menzogna (Dia da Mentira) –, che dette inizio a 21 anni di dittatura.
Perché il presidente di una moderna democrazia incoraggia la celebrazione di un evento che racchiude tutto il contrario della democrazia? Perché Bolsonaro non considera la presa di potere da parte dei militari come un colpo di stato. Anche se il golpe fu il principio di un periodo di eccezione, caratterizzato dalla censura, dalla cassazione dei diritti politici, dalla tortura degli avversari politici e dalla chiusura del Congresso Nazionale, al presidente Bolsonaro piace credere che l’‘intervento’ militare fu la salvezza della civiltà da una fantomatica minaccia comunista.
La giornalista brasiliana Hildegard Angel, i cui parenti sono morti a causa dei militari, commenta rattristata per la rivista The Guardian che la celebrazione dell’anniversario del ’64 in Brasile è come l’istituzione di una giornata alla memoria di Hitler in Germania.
Certamente la posizione di Bolsonaro illustra quello che gli storici chiamano negazionismo. Ma questa negazione del golpe, con l’esplicito corollario secondo cui la democrazia e la libertà esistono solamente se i militari lo vogliono (secondo la dichiarazione del 7 marzo, in occasione della cerimonia di anniversario del corpo dei fucilieri navali di Rio de Janeiro), non è una nuova rivelazione sulle opinioni di Bolsonaro, che non ha mai fatto mistero di ammirare la dittatura. Se Bolsonaro è riuscito a farsi eleggere, è anche perché la dittatura militare non è mai stata superata, al punto che la sua memoria può essere utilizzata come combustibile per alimentare l’odio, per nutrire il risentimento sociale della parte più crudele e retrograda del Brasile, quella che si identifica nell’immaginario del maschio bianco autoritario, che odia il politicamente corretto e si allarma per una presunta dominazione del mondo da parte degli omosessuali, dei neri e delle donne.
Per chi sta lontano dai palazzi della politica è difficile capire se le dichiarazioni sul golpe del ’64 sono solo esternazioni spontanee di un politico sconsiderato, che da tempo ha abituato i brasiliani a ‘uscite’ di questo genere, o se dietro ad esse c’è un preciso calcolo politico della sua corte di consiglieri e agenti di marketing. Se questo fosse il caso, il loro scopo non sarebbe altro che quello di sollevare un polverone, di provocare un’onda di indignazione che distolga l’attenzione dell’opinione pubblica dalle azioni concrete del suo governo, specialmente del ministro dell’economia Paulo Guedes, che in questi giorni è in difficili trattative con i deputati per far approvare la riforma della previdenza sociale con pesanti effetti sulla vita di milioni di lavoratori.
Le dichiarazioni scioccanti e la retorica di rendere il Brasile una patria grande e rispettata potrebbero essere nient’altro che una cortina di fumo per nascondere la pratica della vecchia politica di compravendita dei voti e distribuzione di incarichi e benefici.
Indipendentemente dalla strategia del governo, di cui il presidente appare ogni giorno di più come uno scervellato fantoccio, il progetto populista di un Brasile ‘al di sopra di tutti’, con Dio ‘al di sopra di tutto’ (secondo lo slogan della campagna presidenziale) non va compreso come il progetto di creazione di una nuova memoria storica, ma come la creazione di un mondo immaginario, indifferente alle categorie di vero e falso e basato sulla rimozione costante del senso storico.
Come è stato osservato dal giornalista brasiliano Juremir Machado da Silva in un suo strepitoso editoriale risalente all’epoca delle elezioni del 2018, bisogna comprendere che Bolsonaro non è soltanto un individuo, ma incarna un immaginario: quello di un soggetto disinformato che sostiene che la dittatura non è esistita, o che – se è esistita – era un regime senza corruzione, che purtroppo non è andato così a fondo come doveva nello sterminio dei suoi oppositori.
Bolsonaro è un soggetto proteiforme, che intercetta le varie figure dell’uomo medio del suo paese, dominato dalla massima del “jeitinho brasileiro”, consistente nello sfruttare ciò che è pubblico per trarne vantaggi privati. Bolsonaro ha dunque tante facce:
“È l’imprenditore ambizioso che rinuncia alla democrazia se si tratta di guadagnare più soldi. È il produttore che vede un’esagerazione in certe denuncie di lavoro schiavo. È l’uomo che ritiene normale, in momenti di stress, chiamare ‘puttana’ una donna. L’elettore tipo di Bolsonaro sogna una società di uomini armati per strada, senza legislazione del lavoro, senza scioperi, senza sindacati, senza libertà di stampa. […] Bolsonaro è un modo di essere nel mondo basato sulla truculenza, sulla restrizione della libertà, sull’eliminazione della complessità, sul troncamento dei processi di presa di decisione. Bolsonaro condensa un’interpretazione del mondo che non sopporta la diversità, il rispetto della differenza, la pluralità, il dissenso, il conflitto, lo scontro. Incolto, ignora la storia. Non esiste debito con gli schiavizzati e con i loro discendenti. La colpa per l’infamia della schiavitù non è di chi schiavizzò. Il presente si esime dal passato. Bolsonaro è l’ignoranza che ha perso la vergogna”
(Juremir Machado da Silva, Correio do Povo, editoriale, 8 settembre 2018)