Partito solido o partito liquido? Partito come spazio o come soggettività? Partito reale o partito virtuale? Sono dicotomie nette e non particolarmente interessanti da discutersi se poste in questi termini ma danno l’idea dell’esigenza di un ripensamento, anche carsico, delle modalità di fare politica alla luce dell’aumento delle diseguaglianze, della globalizzazione, dell’atomizzazione del mondo del lavoro e degli sviluppi tecnologici. È passato qualche anno dal 2013, seppur sembri quasi qualche decennio, dal dibattito che, in Italia, fra gli altri, coinvolse anche Fabrizio Barca e la sua idea del “partito palestra”. Nel frattempo, una legislatura si è conclusa e una nuova ha visto la luce.
In un contesto di profonde trasformazioni democratiche all’interno delle quali la “sovranità che appartiene al popolo” sembra non un assunto ma un oggetto di accese discussioni, è interessante riflettere su quel “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Infatti, l’articolo 49 della Costituzione, che attribuisce de facto un’importanza primaria ai partiti nell’esercizio e nel condizionamento della politica nazionale, è oggi di sempre più difficile attuazione. Chiedersi se i partiti politici siano l’infrastruttura principale della democrazia rappresentativa è una domanda che ha poco a che fare con la teoria democratica e molto con la sua prassi, col rapporto fra cittadinanza attiva (e non solo) e istituzioni, con il ruolo delle classi dirigenti in rapporto alla protesta, al malessere, ma anche alle spinte di cambiamento che si politicizzano nelle maniere più svariate.
Ogni paese, persino ogni territorio, ha le proprie specificità, la propria storia politica con tradizioni, contraddizioni, condizioni peculiari ecc., ma quale sia la forma più adatta per interpretare la democrazia del ventunesimo secolo sembra essere oggetto di ripensamento in tutto Occidente tranne che in Italia.
In questo senso, è interessante il contributo proposto qualche tempo fa da Paolo Gerbaudo su Jacobin. Dal dibattito intorno all’abolizione dei superdelegati e intorno al rapporto fra base ed eletti avvenuto nel Partito Democratico statunitense, alla ristrutturazione del Labour Party britannico in connessione ai sindacati e contemporaneamente al mondo giovanile, fino alla saldatura fra intellettuali e movimento operatasi nell’alveo di Podemos in Spagna, l’intervento di Gerbaudo mette in luce un’eventualità non più liquidabile o trascurabile: quella che i partiti politici, con nuove modalità di organizzazione, partecipazione e mobilitazione, possano rappresentare un efficacie modalità per incanalare il malcontento popolare e trasformarlo in istanza di cambiamento e di governo. Se la modernità ha portato i grandi partiti-massa del novecento, la post-modernità sembrava aver portato la dissoluzione dei corpi intermedi e delle organizzazioni collettive, è forse giunto il tempo di chiedersi se la post-post modernità del nuovo millennio non abbia portato con sé “the return of the party”?