Il Primo Forum per il Futuro della Democrazia del 2018 si era aperto con una riflessione di Wolfgang Merkel su quanto la crisi della democrazia fosse una questione più attinente alla sfera della percezione che non qualcosa che si basi su osservazioni fattuali. Le democrazie, infatti, secondo il politologo e seguendo anche le successive conclusioni della giornata di Nadia Urbinati, si trasformano continuamente, e spesso le loro trasformazioni vengono definite “crisi” impropriamente e per brevità, forse anche a causa di un po’ di pigrizia intellettuale nel fornire nuove interpretazioni. Per questo è così importante incoraggiare e proseguire nella ricerca, sia dal lato dell’analisi delle cause dei processi sociali e politici e che da quello delle soluzioni agli scompensi democratici che le stesse trasformazioni implicano.
Se proprio di crisi si vuole parlare, forse, ai fini della comprensione delle trasformazioni politico sociali nelle quali siamo immersi, è più rilevante riferirsi a quelle di carattere economico: le conseguenze della Grande Recessione del 2008, nel mondo occidentale, hanno portato a rimettere profondamente in questione non tanto il sistema democratico tout court, ma senza dubbio alcune delle sue categorie più rilevanti: quelle di destra e sinistra, di moderati e radicali, di progressisti e conservatori. L’aumento delle diseguaglianze causato dalla globalizzazione neoliberale a scapito della classe media e il susseguirsi negli ultimi decenni di governi di diverso colore politico, ma intenti nella medesima politica economica basata su austerità, teoria dello sgocciolamento e libertà per il settore finanziario, hanno prodotto divisioni nuove. Divisioni basate su assi pre-politici per lo più: come quella fra nazionalisti e cosmopoliti e, soprattutto, quella fra Alto e Basso, fra popolo ed élites, fra centri e periferie, fra i pochi e i molti. Contribuendo, in sintesi, alla diffusione di ciò che viene impropriamente ma evocativamente chiamato “populismo”.
Il mandato del Forum 2019 è dunque quello di interrogarsi ancora, come nel 2018, su come colmare il gap fra cittadini e istituzioni, ma anche quello di fare un passo avanti nell’approfondire quali strumenti democratici, quali discorsi politici, quali formazioni, associazioni e movimenti, possano attivamente e significativamente ricostruire un tessuto sociale che riconnetta le dimensioni di “alto” e “basso”, permettendo alle domande sociali di esprimersi politicamente e non attraverso l’astensione o, peggio, attraverso dinamiche violente o regressive sul piano dei diritti.
Infatti, diversi fenomeni – fra i quali i più discussi sono stati la Brexit e l’elezione di Donald Trump nel 2017, ma anche l’aumento del voto ai partiti e ai movimenti che si riconoscono nella dottrina della “democrazia illiberale” propagandata dal gruppo di Visegrad di Victor Orban, da Marine Le Pen e Matteo Salvini, in accordo col network mondiale delle destre estreme costruito da Steve Bannon – sembrano suggerire che la dimensione del malcontento e delle difficoltà materiali sia stato egemonizzato dal discorso politico regressivo. La sfida contemporanea sembra dunque ricostruire un orizzonte di senso, innanzitutto culturale, intorno ad opzioni alternative, tanto allo status quo che ha creato la divisione fra “alto” e “basso”, tanto alla strumentalizzazione della rabbia e del disagio in funzione dell’esclusione sociale e dello smantellamento dei diritti civili. Per riconnettere virtuosamente “alto” e “basso”, è dunque fondamentale interrogarsi su almeno tre grandi questioni contemporanee:
La prima è connessa alla sfera dell’istruzione e dell’educazione: i cittadini hanno oggi gli strumenti per leggere criticamente il presente? Quali sono gli attrezzi concettuali fondamentali che servono per orientarsi in un mondo complesso e come differiscono (o meno) dal passato? In che rapporto stanno il mondo della produzione del sapere e della cultura e il mondo delle soggettività politiche e delle istituzioni democratiche, al tempo delle fake-news, delle discussioni sul web e dell’analfabetismo di ritorno?
La seconda dimensione cruciale da affrontare è quella che concerne la vivacità delle dimensioni locali e dei presidi di democrazia cittadina, e delle esperienze di democrazia deliberativa e di forme alternative di dibattito e rappresentanza. L’innovazione democratica rappresenta un insieme di pratiche efficaci per combattere la spoliticizzazione e lo sfaldamento dei corpi intermedi? Come ricostruiscono comunità queste pratiche e come possono durare nel tempo o essere portare ad una scala superiore a quella locale/amministrativa?
La terza, last but not least, è una domanda sulle profonde possibilità contemporanee della democrazia rappresentativa: quale è oggi l’agente del cambiamento? I partiti sono ancora il principale strumento per i cittadini per entrare nelle istituzioni e modificare i rapporti di forza della società? Come stanno reagendo i soggetti politici organizzati alle sfide dei nuovi vettori di politicizzazione dei giovani e alla sfida dell’astensione che, anche nel nostro Paese, diventa così spesso il primo partito per scelta?
Sono domande ambiziose e non può una giornata sola di confronto avere l’ambizione di rispondervi esaustivamente, né si possono affrontare tali questioni se non con un lungo confronto con personalità internazionali e soggetti attivamente impegnate in responsabilità istituzionali, politiche, nella società civile. Tuttavia, come spesso accade quando ci si interroga sul futuro della democrazia, l’esercizio intellettuale più urgente non sembra essere trovare una risposta, bensì impostare correttamente la domanda.
Infatti, in società sempre più diseguali in cui l’ascensore sociale è bloccato, in una realtà in cui i giovani stanno prendendo coscienza dei fallimenti del mercato e della globalizzazione e guardano al futuro con ansia invece che con speranza, in un periodo storico nel quale i progressisti sembrano inadeguati e dispersi, in un discorso pubblico sempre più inquinato da razzismi, xenofobia e odio, interrogarsi sulle forme attraverso le quali il “basso” può tornare a prendere coscienza dei propri diritti e delle possibili forme politiche ed economiche alternative, creando domanda di giustizia invece che di esclusione sociale, sembra importante per creare un “Alto” più competente, rispettoso, più attento al medio-lungo periodo e, auspicabilmente, meno autoreferenziale.
Se è vero, come ci ha insegnato il Forum del 2018, che le democrazie si trasformano continuamente, l’edizione del 2019 si interroga sulle condizioni e le modalità attraverso le quali i cittadini possono continuare a decidere in che direzione debba essere orientato il cambiamento. Ne Il futuro della democrazia (1984) Norberto Bobbio includeva, fra le sei promesse non mantenute della democrazia da lui individuate, quella dell’estensione dei suoi spazi: la democrazia politica non può resistere senza diventare democrazia anche economica, senza occupare i luoghi che rimangono non elettivi come le imprese o gli apparati burocratici amministrativi. Oltre il dibattito giornalistico sul “populismo”, un’etichetta ormai giunta a definire tutto e il contrario di tutto nel suo uso quotidiano, è dunque necessario interrogarsi sulle condizioni fondamentali che rendono possibile ed effettuale la partecipazione, che rendono i cittadini liberi dal bisogno ma anche liberi di decidere in modo efficace. In questo senso, porre correttamente la domanda è, in fondo, anche un modo per prendere posizione.