Presidente onorario Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Dal punto di vista della teoria normativa, il 1789 costituisce la risposta alla domanda: come trasformare i sudditi in cittadini? Questo primo snodo rappresenta la prima tessera del mosaico della cittadinanza. Il 1889 – un secolo più tardi – rappresenta un esito dell’esercizio del diritto di coalizione e pone all’agenda normativa l’argomento del conflitto sociale della modernità, cioè l’estensione della cittadinanza sia nei termini dei diritti civili sia in quelli dei diritti politici sia in quelli dei diritti sociali. Il 1989 – con la caduta del Muro di Berlino e le tesi su la “fine della storia” – poneva nuovi interrogativi alla filosofia politica impegnata a pensare la democrazia e il rapporto tra cittadinanza e mercato.

Proponiamo qui un estratto del testo “Una filosofia politica della cittadinanza” scritto da Salvatore Veca nel 1989 in occasione del Quinto Colloquio Internazionale su “Libertà e cittadinanza sociale. I due ’89: dalla Rivoluzione Francese alla Seconda Internazionale” che si svolse a Cortona nell’ottobre del 1989.

Lo stato sociale, la cittadinanza e il “composto chimico instabile”

L’estensione della cittadinanza presuppone la complicata vicenda del conflitto fra le classi centrali della modernità. L’invenzione della democrazia di massa, a suffragio universale, grazie alla congiunzione del principio individualistico dell’eguaglianza politica e del principio pluralistico del diritto di coalizione, sociologicamente riformulabile nel principio della mutua compatibilità fra identificazioni collettive per individui tra loro alternative, risulta connessa, in una prospettiva normativa, alla trasformazione dello stato di diritto in stato sociale. A sua volta, ciò è connesso alla estensione della agenda pubblica, a quanto è oggetto di allocazione imperativa o scelta collettiva. In altri termini, allo slittamento e alla continua ridefinizione, intrinsecamente instabile e provvisoria ma in qualche modo relativamente anelastica e comunque sempre (più?) costosa (nessun diritto, come nessun pasto, è gratis, come sanno i ministri delle finanze, del tesoro e del bilancio e, naturalmente, i governatori delle banche centrali), del confine fra quanto attiene alla sfera privata e quanto attiene alla scelta pubblica. Questa trasformazione e questa estensione sono modellate, in vari modi, forme e contingenze storiche ed empiriche, dal conflitto sociale della modernità e sono, per dir così, l’eco e la traccia del secondo ’89.

Nella sua forma più alta, dal punto di vista di una filosofia politica della cittadinanza questa estensione del pacchetto di diritti da ascrivere allo status di cittadinanza esprime al meglio il mix, il “composto chimico instabile”», fra gli ideali della emancipazione liberale e quelli dell’emancipazione socialista: il che è variamente definibile come la tesi del liberalismo sociale, del pacchetto del New Deal, del Service State, della dottrina sociale delle chiese cristiane o del compromesso socialdemocratico, a seconda delle tradizioni e dei dizionari, localmente e parrocchialmente ereditati. Ora, la mia tesi è che il terzo ’89, quello che ci è contemporaneo, in cui ci poniamo i dilemmi normativi generati dal remoto “Progetto Ottantanove”, formuli per noi un’agenda di questioni pertinenti, se prendiamo sul serio l’idea di valore politico e morale che questo è il miglior passato da cui guardare a un futuro normativo desiderabile, alla luce di un qualche criterio o insieme di criteri di giudizio politico e morale, per gli scopi di una filosofia politica della cittadinanza. Questa tesi vale, naturalmente, per il nostro angolo di mondo. L’argomento sulla cittadinanza ha senso entro un sistema di coordinate o una cornice di sfondo che è la nostra. Tuttavia, come suggerirò nelle osservazioni conclusive, essa non è priva di interesse per i coinquilini del pianeta, sudditi non ancora cittadini, miliardi di compagni oppressi dalla sorte naturale e da quella sociale o politica, oltre che da azioni, istituzioni e poteri dispotici, arbitrari e tirannici.

L’inclusione dei grandi interessi omogenei delle classi centrali del “lavoro” nell’arena pluralistica della rappresentanza e nello status di cittadinanza per un verso ha generato, in società sufficientemente simili alle nostre, le classi-maggioranza di cittadini e la nuova sottoclasse di svantaggiati, poveri, marginali, devianti. (La trasformazione di sudditi in cittadini è un compito che non è mai finito, neppure nel cono ricco, molto ricco, dei paesi dell’Ocse). Per un altro verso, l’estensione della cittadinanza del secondo ’89 ha formulato per il terzo ’89 la sfida dei “nuovi” diritti (di terza generazione) che non attengono a grandi interessi aggregati e omogenei e, in ogni caso, monodimensionali, ma che dipendono piuttosto da una sorta di riclassificazione analitica di interessi diffusi che toccano questioni (di sorte e di tempo, quando non di significato) di vita per uomini e donne. (Le donne hanno insegnato molte cose, a questo proposito, ai filosofi politici della cittadinanza). Basta pensare alla proliferazione di “carte” che affollano il catalogo dei nuovi diritti. Ciò avrebbe sconcertato probabilmente anche il cittadino marchese Condorcet che pure è tra coloro che nel primo ’89 “ha preservato il diritto all’interpretazione delle generazioni future”, per la Dichiarazione del 26 agosto. Ciò sembra ad alcuni rendere evanescente e patetica o remota, quando non arcaica, la nozione stessa di cittadinanza. Il che renderebbe del tutto fatuo il mio argomento. (Alcuni intellettuali e letterati di alcuni paesi ricchi dell’Ocse parlano in proposito di “postmoderno”, inflazionando un termine che lascerei volentieri agli architetti perché lo discutano seriamente, se è il caso. Io credo si tratti di favole o di argomenti di conversazione, analoghi a quelli sulle sventure epocali della società di massa dei colleghi di Oxford e di Cambridge di qualche decennio fa, quando lo stipendio non consentiva più dì tenere il giardiniere oltre a due donne di servizio).

La mia tesi è inversa: la riclassificazione analitica degli interessi e le caratteristiche connesse allo status di cittadinanza, la mappa più variegata o, più semplicemente, multidimensionale del vantaggio e dello svantaggio naturale e sociale fra cittadini di serie a, b, c, quando non dei nuovi sudditi, non rendono fatuo il grand récit della storia della cittadinanza nell’epoca della modernità. Esse, al contrario, sono concettualizzabili come sfide e dilemmi solo se siamo capaci di cogliere l’integrità di una storia, di una vicenda, narrata nello spazio breve, molto breve, di due secoli circa a partire dalla conversione dei sudditi in cittadini. È certamente una tessera nuova del nostro mosaico; un pezzo nuovo nel nostro puzzle della filosofia politica della cittadinanza. Tuttavia, il punto importante è accettare che si tratti di una tessera o di un pezzo dello stesso mosaico o dello stesso puzzle (nulla di inedito o inaudito o epocale, per favore). Accettare questa tesi dell’integrità è quanto fa differenza rispetto agli argomenti che sembrano (a tratti) abbozzati nelle favole del postmoderno. Non c’è proprio nulla di epocale in tutto ciò: salvo, naturalmente, che per le declamazioni di intellettuali privi di umiltà, di responsabilità scientifica e di rispetto morale per le vicende degli uomini e delle donne, e, infine, piuttosto parsimoniosi quanto al sentimento moderno della forma di vita democratica.


WEST BERLIN – NOVEMBER 11: People stand on a section of the Berlin Wall at Potsdamer Platz. (Photo by John Tlumacki/The Boston Globe via Getty Images)


Alcuni interrogativi e un’agenda possibile

Il terzo ’89 potrebbe porre, grosso modo, i seguenti interrogativi distinti, anche se non indipendenti fra loro, per una filosofia politica della cittadinanza: i) come ridisegnare la mappa dello stato sociale? Il che vuoi dire: quali criteri ci consentono di selezionare fra interessi e preferenze di cittadini, di identificare chi ha diritto a che cosa, quando e come? ii) Come tutelare le virtù del pluralismo riducendone i costi? Il che vuoi dire, quali criteri per selezionare e ridurre l’arena della scelta pubblica, per la contrazione della sfera dell’impiego della risorsa dell’autorità a opera della leadership democratica? iii) Come mantenere la promessa della correlazione fra scelte individuali e scelte collettive, su un’arena ristretta a poche, grandi questioni che pertengano a interessi di lungo termine? Il che vuoi dire quali regole per la competizione politica, basata sull’idea di valore che i cittadini governati abbiano “voce” e le loro preferenze siano prese sul serio e contino per selezionare la leadership (i cittadini governanti), vincolandola alla responsabilità e alla rispondenza? iv) Come modellare lo status di cittadinanza perché esso mantenga le caratteristiche di un processo di abilitazione per uomini e donne differenti e non di un processo di livellamento? La mia congettura è che una filosofia politica della cittadinanza debba basarsi sulla migliore interpretazione possibile di quel grappolo di valori, di quel nucleo normativo di libertà, eguaglianza, fraternità che è la traccia, vicina, della remota vicenda del primo ’89: costituzione di libertà (negativa e positiva); eguaglianza nelle opportunità fondamentali per cittadini e cittadine; solidarietà di cittadinanza con chiunque, senza sua responsabilità, è svantaggiato con handicap imputabili alla sorte nelle dotazioni sociali e naturali iniziali, quando non svantaggiato dalle differenze che istituzioni, inique o inefficienti, sanzionano, costituivamente o regolativamente, come ineguaglianze. (Questa è ancora l’eco di Rousseau e del suo pionieristico secondo Discorso). Dopo o oltre lo stato sociale modellato dalla vicenda inaugurata dal secondo ’89, l’immaginazione politica, la fantasia intellettuale, la responsabilità scientifica e, infine, la serietà morale dovrebbero, credo, concentrarsi su questi temi.

Senza dimenticare che la democrazia come progetto eminentemente inadempiuto, presuppone il ricorrente esercizio dell’arte liberale della separazione, l’arte del costituzionalismo: la generazione di regole, generali nella formulazione, universali nell’applicazione, pubbliche nell’informazione, per i ruoli degli attori sociali e i confini delle arene o delle sfere della loro libertà di scelta. La cittadinanza del terzo ’89 non è contro il mercato (questo è un argomento proprio e familiare per il secondo ’89): essa definisce e perimetra i limiti del mercato. Essa si basa sull’idea che qualcosa va sottratto al mercato perché il mercato possa generare benessere e ottenere esiti di efficienza. La cittadinanza senza mercato sembra essere un ideale attraente: i negozi sono vuoti. Il mercato senza cittadinanza è altrettanto moralmente riprovevole: i supermarket straboccano, ma solo alcuni tiranni, più o meno presentabili e con look variabile e contingente, vi hanno accesso, con una impressionante varietà di carte di credito (tutto questo, omettendo riferimenti al Casino-Capitalism della recente arena mondiale della ricchezza “non reale”). Infine, una filosofia politica della cittadinanza, nei tempi della fine secolo del terzo ’89, sembra a me richiedere l’esercizio (che presuppone l’apprendimento) della ragionevolezza politica e morale. Questo è qualcosa come l’eco del recente illuminismo. Dopo Auschwitz e i Gulag, abbiamo la responsabilità morale e politica di continuare a pensare. A pensare in proprio. I nostri non sembrano a me i tempi della fine della storia (con buona pace di Francis Fukuyama): questa è solo una banalità che si aggiunge al corteo delle banalità di cui è forse inevitabilmente piena la biblioteca o meglio (spero) l’emeroteca di esseri goffi e limitati quali siamo noi. Al contrario, c’è molto da fare in questo mondo largamente imperfetto, strano e complicato. E, soprattutto, ne vale la pena.

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