Locke diceva che il lavoro è la lunga mano dell’uomo, senza la quale egli si trova senza ruolo e dignità nella società. Per molto tempo, infatti, il lavoro è stato considerato un diritto: e lo è stato quando le strutture sociali erano più povere, la ricchezza assai meno distribuita, le tecnologie e le tecniche assai più semplici, il lavoro molto meno specializzato e, per così dire, “vuoto di conoscenza”.
Oggi non è più così e la libera circolazione di merci, persone e capitali – la chiamano globalizzazione ma in realtà è un fenomeno assai più articolato – ha fatto diventare il lavoro un’opportunità che, come tale, va creata e per crearla bisogna, appunto, “lavorare”.
La storia dell’industria ha proceduto per paradigmi tecnologici: la macchina a vapore, il motore a scoppio, l’elettricità, la petrolchimica. E l’Italia, sia pure con qualche affanno, questi paradigmi li ha agganciati tutti. Nel solo 1918 vennero prodotti 6.523 aerei e 14.820 motori; negli anni ’60 l’Olivetti sviluppò e costruì nel Canavese i grandi calcolatori elettronici, i mainframe. L’invenzione del polipropilene – con il premio Nobel a Giulio Natta – fu il prodotto del lavoro della Montecatini. Sarebbe un lungo elenco.
Cosa è successo da allora? Semplice: il paradigma tecnologico è cambiato. Si è affermato quello della microelettronica e delle telecomunicazioni, ma il nostro sistema industriale non è stato in grado di catturarlo. Al di là di altre spiegazioni, molte certamente corrette, originano da qui il ritardo ed il declino strutturali della manifattura italiana.
Il ritardo non è di fatto colmabile. La politica industriale non può più fare molto in questo senso e non è nemmeno detto che sia sensato sprecare risorse per provarci. La corsa della tecnologia è troppo veloce per chi non si è mosso dall’inizio e le grandi imprese italiane che, forse, potrebbero ancora farcela, sono ormai troppo poche e isolate a livello internazionale: il tempo è andato e gli “asset” adeguati pure. Bisogna pensare più lungo termine.
Come si crea il lavoro e chi lo può creare, dunque? I protagonisti sono tre.
Le imprese, comprendendo quale sarà il prossimo paradigma tecnologico ed investendo in innovazioni di prodotto, di processo e di strutture organizzative coerenti non con il presente ma con il futuro. Cosa ci stanno a fare, se no, gli animal spirit di Keynes e la “distruzione creatrice” di Schumpeter?
I lavoratori stessi, attraverso processi di crescita professionale che – pur costando tempo, fatica, risorse e a volte anche rinunce – consentano loro di definirsi sempre più (il termine è brutto, lo so) come “sistemi occupazionali qualificati”.
La Pubblica Amministrazione, nelle sue componenti centrali e locali, attraverso il perseguimento di politiche industriali efficaci, stabili e condotte in un’ottica di lungo periodo. Ci vuole il coraggio di fare quattro cose.
Identificare quali settori potranno contribuire allo sviluppo del Paese (non crescita, ma sviluppo, che è molto di più!) e sostenerli, anche finanziariamente, nei loro processi di modernizzazione ed internazionalizzazione. Serve riconoscere che non tutte le industrie sono meritevoli di essere supportate alla stessa maniera, specie quando le risorse pubbliche sono scarse. Sarà la concorrenza a decidere la loro sorte.
Definire il livello desiderato di competizione per quei settori ritenuti cruciali, non lasciando in questi casi tutto il potere al mercato. Perché non sempre più concorrenza significa maggiore competitività e quindi efficienza: specialmente in industrie ad alta intensità di capitale dove contano la dimensione globale e il presidio della domanda interna.
Puntare sul paradigma tecnologico di domani, non su quello che domina l’oggi, investendo massicciamente – e facendo investire le imprese – negli enti che sviluppano adesso la tecnologia che sarà industria domani. Ce ne sono tanti e di valore in Italia: a Milano c’è il Politecnico, ma non è l’unico caso.
Spingere realmente le imprese medie a integrarsi tra loro e a capitalizzarsi, utilizzando tutti le leve fiscali disponibili (v’è l’imbarazzo della scelta!), tanto importante e strutturale è l’obiettivo. Solamente con dimensioni accresciute e un solido patrimonio tecnologico le imprese italiane potranno diventare “strumenti attivi” di politica industriale.
Alessandro Pansa
Professore in Finanza alla LUISS Guido Carli e Responsabile Scientifico di Spazio Lavoro
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