Il testo è tratto dal volume Le pratiche dell’inchiesta sociale, pubblicato nel 2009 da Edizioni dell’Asino e curato da Stefano Laffi. Si ringrano l’editore e la famiglia di Alessandro Leogrande per la gentile concessione.


Raccontare la realtà, raccontare l’Italia. Dopo almeno un de­cennio di apatia, di minimalismo letterario e giornalistico, gli ul­timi anni sono stati segnati da un deciso ritorno all’inchiesta (narrativa, sociologica, militante…) e al reportage letterario, o a quello che più in generale viene definito come racconto della realtà e delle sue pieghe. Diciamo che c’è stata un’inversione di tendenza. Alcuni libri, alcuni reportage hanno costituito la punta dell’iceberg, e sono stati oggetto di notevoli attenzioni me­diatiche. Tuttavia non sono state queste opere a segnare l’inver­sione di tendenza. I segni di tale cambiamento erano già presenti nella massa sotto la superficie dell’acqua, in tutto ciò che, pur meno evidente, ha contribuito a creare un cospicuo bagaglio di modelli e riflessioni.

Definire cosa siano l’inchiesta o il reportage oggi è molto dif­ficile, perché eterogenei sono gli approcci e i risultati. Alcuni li definiscono metagiornalismo, altri paraletteratura: insomma qual­cosa che è sempre a lato, al di qua o al di là di qualche “corren­te centrale” che si è andata definendo nel corso del Novecento. Il fatto è che esiste una vasta terra di mezzo, all’incrocio tra let­teratura, sociologia, storia (storia del passato prossimo e storia del presente che si fa), antropologia, giornalismo (ma potrem­mo aggiungere anche urbanistica, ecologia, psicologia, medici­na eccetera): è possibile praticarla, aggirarsi al suo interno, mescolando i generi, dilatandoli e rivoltandoli, facendoli reagi­re l’un con l’altro. Non tutti, ovviamente ci riescono. Ma alcu­ni esempi contemporanei — Kapuscinski, Aleksievic, Langewiesche e altri — spiegano al meglio, con le loro pagine, con la loro ope­ra, quali livelli possano essere raggiunti.

Il punto ora non è capire come e quanto questi modelli si stiano affermando in Italia, né stabilire un criterio estetico-let­terario in base al quale giudicarli. Vorrei invece suggerire qual­che riflessione sui presupposti metodologici (e morali) alla base del racconto della realtà.

Oggi in Italia, si stanno affermando due potenti consuetu­dini retoriche.

Partiamo dalla prima. Ci si oppone al minimalismo, alla let­teratura per la letteratura, alla superficialità di giornali e televi­sioni — tutte operazioni apparentemente sacrosante — brandendo la necessità di un vago realismo. Come se occuparsi di realtà, di quello che ci succede intorno, possa essere di per sé moralmen­te giusto. Detto in altri termini, ciò suggerisce l’idea che basta accendere una telecamera all’angolo tra due strade, senza porsi tutta una serie di riflessioni sullo sguardo, sulla relazione tra soggetto e oggetto dell’osservazione, sui modi del racconto, per cavare fuori una trasposizione del reale. Ma la questione è un po’ più complessa. Esistono racconti e sguardi implicitamente reazionari, e — al contrario — implicitamente non-reazionari? Cre­do di sì, ma ogni vago accenno al realismo (molto diffuso in ge­nere nelle discussioni tra scrittori) stempera, fino ad annullare, differenze essenziali come questa.

Così facendo, si torna indietro di almeno un secolo. Tut­ta la filosofia e la sociologia del Novecento (non occorre qui rievocare nomi e correnti) si basa sul presupposto che la Veri­tà e la Realtà, con la V e la R maiuscola, non esistono. Che lo “sguardo oggettivo” non esiste. Che è possibile cogliere pezzi di realtà, e che è possibile farlo soggettivamente, da un pun­to di vista che si colloca all’interno della tela che si sta osser­vando, e non al di fuori. Ciò non vuol dire che bisogna darla vinta al relativismo e al solipsismo più assoluti. Ciò non vuol dire che sia possibile raccontare solo il proprio ombelico (o la propria famiglia, la propria casa, il proprio partner). Vuol di­re semplicemente che ricostruire, nel racconto, nell’osserva­zione, parti della tela che trascendano il proprio io (e la propria famiglia, la propria casa, la propria classe) è molto difficile. Ed è molto difficile, nel farlo, liberarsi dei propri pregiudizi, del­le proprie credenze, metterli in discussione, interagire con lo­ro criticamente. E poi la realtà, detta così, è un contenitore che non spiega niente.

Mi aiuto con una citazione da Max Horkheimer. Alla me­tà degli anni trenta del secolo scorso, in un saggio intitolato Sulla metafisica bergsoniana del tempo, poi pubblicato nella rac­colta Teoria critica (Einaudi 1974), il filosofo tedesco arrivò a lambire il punto che mi interessa mettere in luce. Da allora il mondo è radicalmente cambiato, ma su un piano strettamen­te filosofico i termini della questione mi paiono identici. Scri­veva Horkheimer:

In Bergson si trova la frase: “[.. .] Il filosofo non ubbidisce né comanda: cerca di simpatizzare.” Questa formulazione contiene, involontaria­mente, un’esatta espressione della situazione sociale in cui la filosofia è venuta oggi a trovarsi. Ci pare che da questa attività intellettuale che è di­ventata impotente l’umanità non debba tanto attendersi un’indifferenzia­ta simpatia con la realtà, quanto piuttosto il riconoscimento delle sue contraddizioni. La simpatia col tutto è altrettanto vuota che quei concet­ti universali che sono giustamente criticati da Bergson.

 

Riconoscere le contraddizioni. Decidere da che parte stare, schierarsi. Basta sostituire la parola “filosofia” con la parola “inchiesta” e la parola “filosofo” con la parole giornalista, scrittore, ricercatore, inchiestista per avere una prima definizione del cam­po di battaglia. Per ripetere ancora una volta le parole di Hor­kheimer occorre fuggire da “un’indifferenziata simpatia con la realtà”, separare il grano dal loglio, individuando le linee di di­visione sociale.

E ora arrivo alla seconda consuetudine retorica. Parallela­mente alla crociata della nuova destra contro il politically cor­rect, si è diffusa una forte sfiducia verso qualsiasi cosa abbia a che fare con l’impegno. Intendiamoci: una retorica dell’impe­gno, del “ben fare”, e del “ben scrivere” in relazione a questo “ben fare”, esiste, suona quasi sempre falsa, ed è spesso diffici­le da decostruire. E tuttavia alla retorica dell’impegno si è an­data contrapponendo (anche in scrittori attenti e avvertiti) una retorica del disimpegno, altrettanto difficile da smontare, e an­cora più fastidiosa.

Alla sfiducia nei confronti della politica (o di certe generi­cità, diciamo, della cultura progressista) si dovrebbe risponde­re con la ricerca di un nuove forme di radicalità, dello scrivere e del denunciare. Invece la retorica del disimpegno va da una altra parte. Si compiace della propria noncuranza, della pro­pria osservazione mesta e impotente, del proprio sguardo pu­ro e, alle volte, dolente. E sovente risponde al degrado della società postmoderna, la società delle macchine, del virtuale e del consumo, mettendo in campo un “io” sornione e scanzo­nato, e vagheggiando il bel tempo andato. I bar di paese, i cineforum di una volta, le relazioni che non ci sono più, il pane ben lievitato.

E qui siamo arrivati a un punto cruciale della questione, all’interrogativo che è alla base di ogni scrivere. Senza mezzi termini, la domanda è questa: in base a cosa, in relazione a quale modello, a quali exempla, critico le storture che guardo? Qual è l’idea positiva in base alla quale definisco negativo ciò che mi circonda? E questa idea positiva è collocata nel passato o nel futu­ro, solo nella mente o in lotte, in tensioni reali che si collocano al di là dello scrivere?

E allora, tornando alla retorica del disimpegno, criticare il post-moderno alla luce del pre-moderno è davvero un’operazio­ne genuina? E aprire uno squarcio critico baloccandosi del fat­to che nulla possa cambiare (tranne forse che nella propria famiglia o nella propria camera da letto) non è altrettanto ambiguo? Co­sa avrebbe detto Horkheimer?

C’è poi un terzo aspetto della questione. Non credo che que­sto sia già diventato una consuetudine retorica, anche se il ri­schio è evidente: finora si è presentato sulla scena come una risposta alla retorica del disimpegno. Sto parlando di quello che potrebbe essere definito “superomismo dello scrivere” — un ap­proccio che, quasi fosse una variante tardo-hemingwayana, ve­nera la potenza dello scrivere in risposta all’impotenza dello sguardo. Il “superomista” è persuaso che la realtà possa essere abbracciata in unico sguardo (il suo) e che l’oggettività, in un processo di mimesi perfetta, possa apparire come per incanto sul­le pagine che scrive. Crede che quel faticoso passaggio che por­ta ad alzarsi di pochi centimetri dalla tela, senza per questo potersene tirarsi fuori, possa essere bypassato dalla scrittura, e che questa — la scrittura — sia davvero in grado di lambire la ve­rità. Anche qui, mi pare, si corre il rischio di tornare indietro di 100-150 anni.

Questo atteggiamento è ad esempio tipico di quei giornali­sti che si reputano esperti di precariato nell’edilizia dopo aver passato venti minuti della loro vita su un cantiere. O di coloro che mescolano con troppa frequenza vero e verosimile, fiction e no-fiction, per far apparire la realtà meno grigia e meno incom­prensibile di quanto non sia. E invece qui si apre una falla. Per­ché non solo la realtà è varia e piena di contraddizioni (e bisogna decidere da che parte stare, dalla parte degli oppressi e non degli oppressori, degli sfruttati e non degli sfruttatori). La realtà è spesso incomprensibile. Le motivazioni che spingono uo­mini e donne a fare alcune cose anziché altre a volte paiono in­spiegabili, sono difficili da decifrare.

Prendiamo Pastorale americana o La macchia umana di Phi­lip Roth. Sono romanzi, non sono inchieste o reportage, è vero; ma il punto su cui vorrei soffermarmi è un altro. Sia in un libro che nell’altro, dopo quattrocento pagine e passa di romanzo, quando abbiamo concluso la lettura ancora non riusciamo a met­tere a fuoco pienamente che cosa passi davvero per la testa dei personaggi principali. Roth ci porta ogni volta sull’orlo di un abisso, laddove le psicologie si frantumano in mille pezzi e in mille facce, e le relazioni tra uomini e donne, padri e figli, ami­ci e nemici, si rovesciano e ricompongono in forme sempre nuove. Ogni volta che siamo sicuri di intravedere il fondo del­l’abisso, si apre un nuovo strapiombo. E allora, in quei momen­ti, viene ancora una volta da chiedersi: che cosa è la realtà? Che cosa regola la vita di una società?

Dovessi dare un suggerimento a chi si accinge, per la pri­ma volta, a scrivere un’inchiesta sarebbe quello di far proprio lo sguardo di Roth. Quanto alla scrittura, sarebbe impossibi­le imitarlo per la quasi totalità del genere umano, ma quanto allo sguardo no, possiamo provare a incamminarci — ogni volta — per lo stesso sentiero. E guardare a una storia di lavo­ro o di immigrazione, di emarginazione o di violenza, avendo in testa Pastorale americana o La macchia umana. Ogni vita umana è un abisso, chi può pretendere di saper raccontare il tutto?

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