«Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene». Basta questa frase di Paolo Borsellino per capire il ruolo di responsabilità cui il giornalismo e i giornalisti sono investiti nel contrasto attivo alla criminalità organizzata. Non è il caso di trovare etichette di giornalismo o di giornalisti «antimafia» per chi scrive sul tema: questo mestiere se fatto con responsabilità è intrinsecamente «antimafia», senza classificazioni.
Per questo è importante l’apporto fondamentale che ogni singolo giornalista può portare alla conoscenza del fenomeno e far scattare quella molla civica nel cittadino/lettore. Lo fanno i cronisti sul territorio che tutti i giorni riempiono con fatica, coraggio e oggi in alcuni (troppi) casi con scarsissima disponibilità di mezzi economici, le pagine della cronaca locale. Un lavoro imprescindibile e spesso sottovalutato da piccoli, e soprattutto, grandi editori, troppe volte a caccia di un click in più per rispondere a logiche pubblicitarie dimenticando quel «patto con il lettore» che dovrebbe invece saldare il rapporto con il pubblico. A loro che studiano e conoscono il territorio più di chiunque altro nel mondo giornalistico va assegnato un ruolo di primaria importanza: la capacità di essere sentinelle in grado di suonare l’allarme, da nord a sud. Uno straordinario presidio per conoscere i fenomeni e imparare a non sottovalutarli. In questi anni in territori che fino a pochi anni fa qualcuno stentava a riconoscere come «terra di mafia» (e Milano ne è stato un esempio straordinario), sono stati loro l’avamposto che ha raccontato la risalita delle mafie verso nord, pronte a espandersi anche in Europa e nel mondo grazie anche alle porte aperte del mondo politico, economico e sociale. Un lavoro portato avanti con coraggio facendo nomi e cognomi, rischiando in prima persona e girando spesso guardandosi le spalle, dovendo difendere sé stessi e in alcuni casi la propria famiglia, stando attenti alle lusinghe e agli ammiccamenti, cercando sempre di capire con chi e con cosa si avesse a che fare.
Così come un approccio di ampio respiro, in grado di connettere tra loro punti e storie diverse, contestualizzarle, scavare più a fondo scovando connessioni pericolose con il potere politico ed economico, comprendere gli addentellati che connettono le mafie nostrane con quelle straniere è un metodo di lavoro che troppo spesso nell’era di Internet viene sempre meno considerato nelle redazioni. Non si può più sacrificare la conoscenza di un fenomeno e il suo racconto ai lettori in nome di una presunta velocità e disponibilità di contenuti «salvifici» che durano lo spazio di qualche secondo. Come detto qualche riga più in alto il patto con il lettore va rinnovato e certo non si basa sulle analitiche del traffico in entrata dei siti.
Quello illustrato è un lavoro complesso che richiede coraggio, capacità e soprattutto studio, perché quello della criminalità organizzata è un mondo complesso da cui non può prescindere l’analisi del contesto socio politico. Di nuovo torna in campo il tema della responsabilità affidata al mondo dell’informazione che può essere mezzo straordinario per il contrasto all’avanzata delle organizzazioni criminali: il cittadino ha il diritto di essere correttamente informato su ciò che lo circonda, così da regolare, in base alle proprie conoscenze e sensibilità i propri comportamenti imparando anche dal passato. Un diritto che prende forma e può essere esercitato nella sua completezza di fronte a organi di informazione che sono in grado di lavorare quotidianamente per «portare acqua pulita», come diceva Enzo Biagi, alla fonte dei propri lettori. Ciò è possibile quando esiste non solo il senso di responsabilità di un singolo cronista, ma dell’intero eco-sistema informativo. Perché se è vero, e lo è, che la prima linea della cronaca e dell’inchiesta giornalistica sul campo sono le fondamenta del racconto, dall’altra parte analisi e commenti sugli stessi organi di informazione contribuiscono a restituire al lettore un quadro più leggibile delle ripercussioni dell’attività della criminalità organizzata sulla vita quotidiana dei cittadini. La responsabilità della scelta dei contenuti, che può si agganciarsi a proposte e intuizioni dei cronisti, ma che viene pesata nelle stanze dei bottoni dei giornali, riveste dunque un ruolo fondamentale: il tema «mafia» non può essere abbandonato nel cassetto in attesa dello scoop, della notizia sensazionale. Rendere comprensibili fenomeni che a prima vista non lo sono o sembrano quantomeno lontani è utile anche a evitare banalizzazioni di sorta che possono portare a uno scorretto inquadramento del tema, dove tutto è mafia e niente è mafia. Allo stesso modo preparando una platea di lettori a digerire e decifrare prodotti che essendo artistico-letterari possono innescare il meccanismo del «fascino del male». Serie tv, libri, rappresentazioni che narrano le gesta di boss, narcotrafficanti e faccendieri con chiavi e registri tra i più disparati è giusto e sacrosanto che arrivino al pubblico, saremmo altrimenti nell’epoca della censura. Lo stesso pubblico però deve avere dalla sua la capacità di interpretare contesti e messaggi, e cosa può prepararlo se non un sistema informativo in grado di offrire buone chiavi di lettura?
Per concludere il giornalismo è senza tema di smentita una prima trincea, un presidio di allarme per segnalare e raccontare la presenza mafiosa. Una grande responsabilità, sintetizzata con maestria da Peppe Fava, cronista ucciso da cosa nostra il 5 gennaio del 1984: «Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. Pretende il funzionamento dei servizi sociali. Tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane». Vale per l’informazione sulle organizzazioni criminali, vale per tutto il resto.