L’uccisione di Pawel Adamowicz, sindaco di Danzica, esponente di Solidarność, domenica sera per opera di un simpatizzante politico della destra nazionalista che oggi governa la Polonia, conferma un dato che è nelle cose ma che ancora facciamo fatica a nominare.
In molte parti d’Europa sta tornando il fascino per il totalitarismo. Con questo termine non si deve intendere solo ed elusivamente la costruzione di una società del terrore, ma soprattutto la pratica della delegittimazione delle opinioni diverse. Ovvero la sconfessione – se non addirittura la messa al bando – di opinioni politiche fondate sull’idea che la democrazia è conflitto, è confronto tra opinioni diverse, tra idee di società e di governo aperte e divergenti. L’uccisione di Pawel Adamowicz dice che oggi, come quaranta anni fa, l’opinione antitotalitaria è tornata a essere pericolosa in Polonia. Lo scrive Adam Michnik, l’ultimo esponente di quel ’68 polacco, poi leader di Solidarność, che ricorda a noi tutti quale sia il campo magnetico del totalitarismo, ma anche quale sia la sfida che la Polonia lancia a se stessa da molto tempo, almeno dal Secondo dopoguerra: essere una democrazia fondata sulla dialettica o una comunità organica senza opposizioni.
Sono le parole che riprendiamo da un suo discorso pronunciato il 10 dicembre 1984 in occasione della laurea honoris causa della New School for Social Research di New York, conferitagli dal rettore di tale università venuto appositamente in Polonia. La cerimonia si svolse a Varsavia, nell’abitazione del professor Edward Lipinski, membro fondatore del Comitato di difesa degli operai, assediata dalla milizia.
Michnik era appena stato scarcerato e non aveva diritto di parola pubblica. E’ presumibile che questa sia ancora la scena di oggi, 15 gennaio 2019, 35 anni dopo, nella Polonia non più comunista, ma ancora affascinata dal totalitarismo che sta di fronte a noi.
NOI DI “SOLIDARNOSC”
La situazione in cui versano da quarant’anni il mio paese e il mio popolo, nonché tutti i paesi gravitanti nell’ambito del potere comunista, è caratterizzata dall’ordine totalitario di stampo sovietico. Esso determina quotidianamente l’esperienza dei popoli e degli individui. Poggia sulla forza e si accompagna alla convinzione che la forza sia l’unica legittimazione logica del potere e anche il principio fondamentale dei rapporti interumani.
La protesta contro tale principio costituisce l’essenza dell’opposizione antitotalitaria. Tutte le voci — spesso diverse tra loro — provenienti dalle nostre file sono accomunate dal medesimo denominatore: il rifiuto della filosofia politica fondata sul culto della forza. Su questo punto convergono Sacharov e Solgenitsin, Milosz e il cardinale Wyszynski, Vaclav Havel e Robert Havemann. Su questo punto si sono trovati d’accordo polacchi delle più diverse convinzioni e dei più svariati ambienti, per creare Solidarność — sindacato e insieme movimento sociale antitotalitario.
Nell’autunno 1981, quando sulla Polonia si addensavano nuvole minacciose e da ogni parte risuonava il latrato delle minacce unito allo scalpiccio degli scarponi militari, Zbigniew Herbert scrisse l’ormai famosa poesia 1 7 . IX, dedicata a Józef Czapski. Eccola:
La mia patria inerme ti accoglierà invasore
e la strada per cui Hansel e Gretel trotterellavano a scuola non si spalancherà in un abisso
Fiumi troppo pigri non inclini ai diluvi
i cavalieri addormentati sui monti continueranno a dormire ti sarà quindi facile entrare ospite non invitato
Ma i figli della terra si aduneranno di notte ridicoli carbonari congiurati della libertà puliranno le loro armi da museo
giureranno sull’aquila e i due colori
E poi come sempre — bagliori ed esplosioni ragazzi gagliardi condottieri insonni
zaini pieni di sconfitte rossastri campi di gloria la confortante coscienza di essere — soli
La mia patria inerme ti accoglierà invasore e ti darà due metri di terra sotto il salice — e la pace perché chi verrà dopo di noi apprenda di nuovo la più difficile delle arti — la remissione delle colpe’.
2 In Zbigniew Herbert, Rapporto dalla Città assediata, a cura di P. Marchesani, Adelphi, Milano 1993, p. 213; p. 97 per citaz. a p. 35.
Questa splendida poesia, piena di eroismo e di amara ironia, illustra l’esperienza polacca meglio di qualunque articolo di rivista o di giornale. Un’esperienza, ossia una guerra permanente per la libertà, solitamente considerata come una caratteristica congenita dei polacchi e che oggi si rivela invece la fonte della loro forza spirituale.
Quei ridicoli carbonari, quei congiurati della libertà sono stati volta a volta i partecipanti alle insurrezioni nazionali e alle rivolte libertarie, i cavalieri delle perdute guerre d’indipendenza e i combattenti dell’ultima, impari lotta contro il totalitarismo hitleriano, conclusasi drammaticamente il 17 novembre 1939 con la coltellata inferta da Stalin nella schiena dell’aspirazione polacca alla libertà.
Ma a giurare “sull’aquila e i due colori” ci siamo anche noi di “Solidarność”. Come dobbiamo sembrare ridicoli agli osservatori neutrali! “La resistenza degli inermi fa ridere, perché la debolezza è ridicola”, constata amaramente Milosz3. E aggiunge:
Il concetto di umanità sfugge alle definizioni, ma acquista concretezza quando un qualche comportamento ne diviene l’esempio. Un ragazzo arrestato perché in casa sua sono stati scoperti volantini di protesta si trova davanti una scelta: cinque anni di prigione, oppure firmare una dichiarazione di lealtà e tornare a casa. Il ragazzo non firma. Agli occhi dell’ufficiale della polizia politica che gli sottopone l’offerta, il rifiuto appare assurdo: secondo lui il mondo è strutturato in modo che le cose vengano decise dalla forza materiale, e la forza materiale sta dalla parte della polizia. In questi scontri della necessità anonima, in nome della quale agisce il funzionario, alla libertà del singolo prigioniero s’intreccia tutta la grande problematica esistenziale. L’atto di rifiuto, infatti, non si basa su niente, non scaturisce da nessun calcolo: anzi tutto parla contro di esso, eccettuata la voce interiore che vieta di cedere alla pressione della forza vittoriosa. Siamo tutti eredi della Bibbia e riconosciamo subito la situazione archetipica del “giusto”, perseguitato dalle forze del mondo che deridono la sua fedeltà a un ordine impartito dall’alto.
Agli esperti dei tortuosi meccanismi della politica, piccola o grande che sia, le parole di Milosz suonano come onesti luoghi comuni. Infatti sono i poeti, non i politici, a scoprire le verità di questa nazione. Chi non ascolta la voce della letteratura polacca, non capisce la Polonia.