Estratto dell’ebook Le metamorfosi delle destre radicali nel XXI secolo
Definire i nuovi volti del fascismo implica disfarsi sia dell’uso corrente della parola stessa che della lingua antica dalla quale deriva. Nel primo caso l’uso della parola fascismo, che prolifera in seguito ad avvenimenti traumatici come quelli del 7 gennaio 2015, serve a qualificare tutto e il contrario di tutto – l’“islamo-fascismo” come le politiche di sicurezza – il secondo ne fa un uso sterile, accontentandosi il più delle volte di un approccio comparatistico che annuncia un ritorno agli anni Trenta.
La sfida non è semplice: si tratta di trovare gli strumenti ad hoc per “svelare” i contorni di questo fascismo postmoderno senza altro “orizzonte d’attesa” se non quello del ritorno all’ordine (reazionario, identitario, sovranista) sostenuto, più che dall’antisemitismo o dall’anticomunismo, da una islamofobia inferocita.
Il fascismo è tornato. In realtà, non ha mai smesso di interessare gli storici e di nutrirne le controversie, ma ultimamente nei dibattiti pubblici riecheggia con insistenza. A volte risorge spontaneamente, come una sorta di passpartout semantico, quando non sappiamo che nome dare a nuove realtà inattese e soprattutto inquietanti. Con questo termine definiamo l’ascesa delle destre radicali un po’ ovunque nell’Unione europea, nella Russia di Putin e nelle fazioni che si affrontano in Ucraina, nel “califfato” che Daech cerca di costituire in Iraq e in Siria e infine negli attacchi terroristici di inizio 2015 in Francia, in Tunisia e in Kenya. In Francia, in particolare, tutti denunciano o rievocano il “fascismo” in modo disarmonico e confuso, da Marie Le Pen a Manuel Valls, fino a Alain Badiou e altri intellettuali di sinistra.
Siamo sicuri che l’uso indiscriminato di tale concetto ci aiuti a capire davvero fenomeni cosi differenti gli uni dagli altri? Molto più che ad analizzarli, il ricorso alla nozione di fascismo serve a condannarli secondo una tendenza tipica della nostra epoca e a trasformare la morale in categoria cognitiva. Ebbene il ritorno del “fascismo” rende urgente e necessario distinguere le realtà circoscritte in tale concetto.
L’ascesa delle destre radicali merita comunque un’attenzione particolare – essa costituisce infatti uno degli aspetti più significativi della crisi europea attuale. Nonostante l’ eterogeneità e le divisioni, che non hanno impedito la creazione di un gruppo parlamentare comune a Bruxelles, le destre radicali condividono alcuni lineamenti – razzismo, xenofobia, nazionalismo – che ne tracciano una tendenza generale. In questa vasta nebulosa, una linea di demarcazione separa i vecchi membri dell’Unione europea dai nuovi provenienti dall’ex blocco sovietico, dove la svolta del 1989 ha creato condizioni favorevoli a una rinascita dei nazionalismi pre-bellici, semi fascisti, anticomunisti e antisemiti. Mostrando la volontà di restituire a questi paesi una coscienza nazionale repressa per quattro decenni d’ibernazione sovietica, tali nazionalismi godono tutti di una certa legittimità nell’opinione pubblica. In Ucraina, un paese attraversato dalle nuove frontiere geopolitiche che separano la Russia dall’Occidente, abbiamo assistito all’inaspettata ricomparsa di formazioni apertamente neonaziste. In Occidente, invece, l’epicentro di questa crisi europea si trova in Francia, dove il Front national domina il paesaggio politico. E dal momento che è dal 1930 che il Vecchio Mondo non assiste a una tale ascesa delle destre radicali, tutto ciò risveglia ovunque la memoria degli anni bui.
Questo ritorno inatteso dei fascismi riapre la vecchia questione sul rapporto tra scrittura della storia e utilizzo pubblico del passato. Secondo Reinhart Koselleck, il fondatore della “storia dei concetti” (Begriffsgeschichte), l’esperienza storica precede la sua concettualizzazione; gli elementi sociali che plasmano la storia sono anteriori al linguaggio che li definisce, senza il quale resterebbero inintelligibili. Tra gli eventi storici e la loro trascrizione linguistica esiste una tensione, perché le due cose sono spesso indistinte e indissociabili1. Questo significa che, non solo i concetti sono indispensabili per pensare l’esperienza storica, ma che addirittura la oltrepassano, sopravvivono ad essa e possono essere utilizzati per comprendere nuove realtà. E se questi concetti non dovessero essere inscritti all’interno di una continuità temporale, saranno per lo meno definiti in base a ciò che è avvenuto.
Il comparatismo storico che, come sottolinea Marc Bloch, mira a cogliere analogie e differenze tra epoche diverse, piuttosto che somiglianze o ripetizioni2, nasce da questa tensione tra storia e linguaggio. Oggi, con l’ascesa delle destre radicali, questa tensione si fa più acuta e rende quindi più urgente la necessità di un approccio comparativo. Da un lato, gli analisti esitano a parlare di “fascismo” – salvo qualche eccezione come l’Alba dorata in Grecia (che si può definire “neonazista”) o come il Jobbik in Ungheria – e sono d’accordo nel riconoscere le differenze che separano questi nuovi movimenti dai loro antenati degli anni Trenta; dall’altro, qualsiasi sia il tentativo di definire questo nuovo fenomeno, il confronto con il periodo tra le due guerre è inevitabile. Il concetto di “fascismo” risulta a volte insoddisfacente, inappropriato, spesso inevitabile per comprendere questa nuova realtà. Quello di “post-fascismo”, termine che distingue questa novità dal fascismo storico e che suggerisce una continuità così come una trasformazione, mi sembra più pertinente; non risponde certo a tutte le questioni aperte, ma corrisponde a questa fase transitoria.