Le città catalizzano oggi molta attenzione, ma in modo diverso rispetto al passato, quando le si associava a parole come ‘crisi’ e ‘declino’, ‘violenza’ e ‘conflitti’, ‘inquinamento’ e ‘scarsa qualità della vita’. Oggi, la maggior parte dei libri che parlano delle città, nei propri titoli, utilizza parole come ‘trionfo’, ‘grandezza’ e ‘creatività’. Gli autori di questi libri offrono proposte e ricette su come aiutare città già protagoniste della scena globale a mantenere la loro posizione e le altre città a entrare nella partita e posizionarsi al top. Ciò che la maggior parte di questi libri non dice è che tutta questa enfasi sulla competitività può anche peggiorare le condizioni di vita delle persone.
In realtà alcuni libri si pongono il problema di come rendere le città più competitive e al contempo migliorare la vita degli abitanti. Io penso, tuttavia, che la questione in se stessa sia mal posta e che comunque basarsi sempre sulla competitività non ci porti da nessuna parte. Che ci si concentri su una prospettiva nazionale o su una globale, mettere al primo posto la competitività significa accettare un gioco a somma zero: la corsa per ottenere vantaggi competitivi che attraggano investimenti ha necessariamente pochi vincitori e molti perdenti. La verità è che, pur seguendo i consigli dei vari consulenti (e quindi spendendo molti soldi) noi, come collettività, non stiamo meglio di prima. Anzi, in termini collettivi, possiamo uscirne danneggiati.
Se l’obiettivo è competere, sappiamo benissimo che il risultato sarà una città dalle grandi disuguaglianze. Quando una città è vincente, da un punto di vista competitivo, in realtà significa che ha prezzi degli immobili alle stelle e una grande disparità salariale. Pensate per esempio a New York e a San Francisco e lo spazio che circonda queste città, dove enclaves privilegiate trovano spazio nei luoghi migliori della città mentre quartieri di desolazione e abbandono mancano dei servizi di base. Una qualche forma di intervento deve esserci per mitigare gli effetti di questi processi di trasformazione che generano, sembra inevitabilmente, una disuguaglianza sociale e spaziale così grande. Il famoso studioso Michael Storper (recentemente ospite di Labexpo a Milano), propone la creazione di un modello di redistribuzione fiscale, al fine di destinare parte delle risorse dalle aree di successo alle zone meno abbienti e più carenti.
Non so se questa sia la strategia migliore, ma sicuramente la strategia peggiore è quella di continuare a fomentare la competizione, spingendo le aree povere, per restare sull’esempio statunitense, di Youngstown, Ohio, a fare l’ennesimo tentativo disperato di vincere la sfida e portarsi a casa la “rivoluzione metropolitana” attraverso la costruzione di hotel per convegni o centri commerciali per attrarre grandi aziende e flussi di visitatori. Ancora centri commerciali: no, grazie, non ne abbiamo assolutamente bisogno! Invece che immaginare modi in cui il nostro sindaco può creare una città più competitiva, dovremmo concentrarci su come migliorare la vita dei cittadini che fisicamente stanno nella città. I parchi sono positivi non perché potrebbero richiamare nuove industrie, ma perché le persone li amano. Avere buone scuole è importante non solo come uno strumento per attrarre gli individui più talentuosi, o persino per aumentare le tasse di ammissione ai college privati, ma perché danno ai ragazzi un’esperienza umana migliore. Potrei continuare con altri esempi, come le piste ciclabili, i musei, le zone con Internet libero. Il punto cruciale è quindi quello di promuovere ciò che è opportuno per l’interesse pubblico, osservando attentamente come le cose si sviluppano e i benefici che ne trae la cittadinanza.
Harvey Molotch
Professore di Sociologia e Studi Metropolitani alla New York University
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