Di seguito pubblichiamo un estratto del libro di Cinzia Sciuto “Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo” appena edito da Feltrinelli. Si ringrazia l’autrice e l’editore per la gentile concessione.


L’identità di ciascun individuo è un prisma complesso, in cui le varie “facce” prendono, ora l’una ora l’altra, il sopravvento per il combinato disposto di diverse circostanze. L’approccio comunitarista spinge affinché l’elemento determinante dell’identità di ciascuno  non sia, poniamo, il genere o la classe sociale, ma la fede o l’origine etnica. Enfatizzare gli elementi etnici e religiosi a scapito di altri ha conseguenze sociali e politiche cruciali perché alimenta solidarietà identitarie anziché di classe o di genere.

In questo caso l’approccio multiculturalista ha giocato un ruolo centrale nella gerarchizzazione dei diversi elementi che caratterizzavano l’identità degli immigrati dal Sudest asiatico nel Regno Unito, facendone emergere e rafforzandone uno – quello religioso – che era, sì, presente ma non costituiva un elemento identitario. Si tratta di un classico esempio di come agisce il paradigma eteronomo […] , che induce a selezionare di volta in volta le caratteristiche dell’identità che “contano”, privilegiandone alcune a scapito di altre.

 

[…]La domanda cruciale è: le persone vanno viste innanzitutto come appartenenti ed esponenti della comunità e della cultura in cui è capitato loro di nascere come cittadini autonomi in grado di avere con la propria stessa cultura un rapporto dialettico e maturo? Identità come appartenenza comunitaria o come cittadinanza, insomma? Assumere l’una o l’altra prospettiva conduce a risultati politici opposti: se la prima porta a indifferenza e mantenimento dello status quo, se non addirittura ad alimentare i conflitti identitari, la seconda induce a mettere in atto politiche che sostengano e promuovano le capacità dei singoli di interagire in maniera matura, dialettica e autonoma con il proprio background.

 

Il multiculturalismo – ossia trattare i diversi gruppi come comunità separate invece che includere i singoli individui come soggetti pienamente titolari di diritti – crea quella segmentazione della società che a parole dice di voler scongiurare. Il risultato non è più il “multiculturalismo” ma quello che Amartya Sen definisce “monoculturalismo plurale”, un proliferare di comunità parallele, ciascuna reclamante diritti speciali: “La coesistenza di diverse culture che stanno l’una all’altra come pecore nella notte può esser considerata un risultato di successo del multiculturalismo?”

[…]

La prospettiva cosmopolitica invece propone di assumere quello dell’autonomia e della libertà degli individui come principio fondamentale, al vaglio del quale far passare qualunque richiesta di diritti collettivi.

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, non tutte le rivendicazioni dei gruppi minoritari sono in sé, istanze progressiste e, da un punto di vista cosmopolitico, quel che va difeso è il diritto di ogni singolo individuo in quanto portatore dell’universalità in quanto essere umano, non in quanto membro di un gruppo. E chiaro che, per questa via, si può giungere anche a riconoscere dei diritti ad alcuni gruppi (per esempio, in alcuni casi il diritto di una minoranza  a usare la propria lingua), ma lo si fa non in nome di un fantomatico diritto delle minoranze, ma sempre e solo in nome dei diritti umani fondamentali. In una prospettiva universalista e cosmopolitica, l’appartenenza al genere umano è prioritaria, e ogni altra “appartenenza” è secondaria e accettabile solo nella misura in cui non confligge con la prima: “I valori ‘tiranni’ devono cedere di fronte al primato dei diritti della persona”.

[…] In società omogenee  da  un  punto di vista etnico e culturale, la distinzione fra cittadinanza e appartenenza etnica (o religiosa) si può anche ignorare, in una società disomogenea no. Si tratta di una distinzione sempre presente e fattibile sul piano analitico, ma che sul piano politico si manifesta – e va affrontata – soprattutto quando il tasso di disomogeneità della società supera una certa soglia. Più aumenta il grado di disomogeneità della società più è necessario separare nettamente cittadinanza e appartenenza etnico-religiosa, individuando un insieme di valori civili di riferimento che rappresentino il nucleo della cittadinanza, prescindano da appartenenze nazionali, etniche, culturali, religiose e siano a esse sovraordinati.

Quanto più una società diventa disomogenea, tanto più questo nucleo deve divenire solido e indiscutibile perché altrimenti le spinte centrifughe che provengono dalle rivendicazioni identitarie rischiano di frammentare l’appartenenza alla comunità politica, con il risultato di creare società parallele nelle,quali i diritti degli individui perdono la loro cogenza.

[…]

A quali condizioni allora si è parte dello stesso demos anche se non dello stesso ethnos? La risposta di Benhabib, in una prospettiva  che potremmo definire cosmopolitico-repubblicana, è la seguente: “Nelle democrazie liberali le concezioni dei diritti umani e di cittadinanza, le tradizioni costituzionali e le pratiche democratiche di elezione e rappresentanza costituiscono il nucleo normativo dell’integrazione politica. È nei loro confronti che cittadini  e forestieri,  nativi e residenti stranieri, devono mostrare rispetto e fedeltà, e non nei riguardi di una specifica tradizione culturale”.

[…]

Il “nucleo normativo dell’integrazione politica”, però, non è un oggetto caduto dal cielo, è una costruzione sociale in continuo divenire che viene plasmata nell’ambito di precisi contesti culturali, sociali e politici e che emerge attraverso il conflitto interno. In altri termini, non è una “tavola della legge” data una volta per tutte, “rivelata”, che tutti riconoscono spontaneamente come vincolante. E un insieme di valori etici e politici, che vanno quotidianamente scelti e per i quali val la pena combattere. L’appartenenza a uno stesso demos, a una stessa comunità politica che condivide un nucleo normativo minimo, implica la possibilità di mettere in discussione valori, usi, tradizioni che contrastano con quel nucleo.

E tutto ciò non ha nulla a che fare con una pretesa “omogeneità”.

 

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