Ricercatrice in Urbanistica e Politiche del Territorio

Gli insegnanti di Zen abituano i loro giovani allievi ad esprimersi.
Due templi Zen avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra tutti. Ogni mat-tina uno di questi bambini, andando a comprare le verdure, incontrava l’altro per la strada. «Dove vai?» ‒ domandò il primo.
«Vado dove vanno i miei piedi»‒ rispose l’altro.
Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che andò a chiedere aiuto al suo mae-stro. «Quando domattina incontrerai quel bambino» ‒ gli disse l’insegnante ‒ «fagli la stessa domanda. Lui ti darà la stessa risposta, e allora tu domandagli: “Fa’ conto di non avere i piedi: dove vai, in quel caso?”. Questo lo sistemerà».
La mattina dopo i bambini si incontrarono di nuovo.
«Dove vai?» ‒ domandò il primo bambino.
«Vado dove soffia il vento» ‒ rispose l’altro.
Anche stavolta il piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al maestro la propria sconfitta.
«E tu domandagli dove va se non c’è vento» ‒ gli consigliò il maestro.
Il giorno dopo i ragazzi si incontrarono per la terza volta.
«Dove vai?» ‒ domandò il primo bambino.
«Vado al mercato a comprare le verdure» ‒ rispose l’altro.

(101 storie zen – 89 – Dialogo Zen)

Ho sempre pensato Guido Martinotti come una specie di maestro Zen, incarnazione del libero insegnamento secondo un’idea profonda che scorre nelle vene della cultura uma-na da Oriente a Occidente, il concetto di paideia. In base al modello ispiratore greco, la paideia, fine stesso e ultimo dell’educazione, è quel processo continuo e incompiuto di cui l’uomo ha bisogno per divenire se stesso, realizzarsi pienamente come soggetto indipendente, libero nel mondo. Così, quando sei anni fa è scomparso improvvisamente Martinotti, la sensazione è che ad andarsene fosse un interprete sincero di questa tra-dizione educativa. Non solo un antesignano dell’interdisciplinarietà – si affacciava alla sociologia provenendo dalla giurisprudenza, materia in cui si era laureato con una tesi sulle interpretazioni sociologiche del fascismo – né “solo” uno dei fondatori dell’Univer-sità Milano Bicocca e del suo dipartimento di Sociologia, ma una “voce” limpida di in-tellettuale critico.
Il lascito di Guido Martinotti consiste nell’insieme delle sue opere e, soprattutto, nell’impulso che le motivava: spiegare il fenomeno urbano e le sue metamorfosi al di là delle generalizzazioni. Famosa, ad esempio, nell’ambito del suo studio sulla transizione da città a metropoli e sulle caratteristiche sociologiche della mobilità spaziale in ambi-to metropolitano, la sua classificazione delle popolazioni urbane in abitanti della città tradizionale, pendolari, city user (gli utilizzatori dei servizi urbani, come i turisti) e businessman sulla base delle abitudini abitative, lavorative e di consumo.
Da sociologo e, dunque, studioso interessato alle forme di interazione nei territori ur-bani, l’analisi fondata sull’uso della relazione tra la spinta degli umani ad abitare as-sieme (caratteristica alla base delle città) e la città da definire rispetto alle sue tra-sformazioni storiche, ha aperto un orizzonte interpretativo importante: quello sui di-versi modi di stare insieme in città. Modi contraddistinti da caratteristiche specifiche, che diventano ancor più importanti oggi che l’urbano ha rotto il perimetro della sua forma classica e si diffonde – con l’insieme di valori, bisogni, pratiche e stili di vita che sottende – in territori nuovi.
Oltre alle componenti specifiche dello stare insieme in città, si diffondono modi nuovi dello stare in città senza stare insieme e/o dello stare insieme facendo “altre” città. Ed è proprio ciò di cui abbiamo più bisogno oggi: saper dire non solo che popolazioni usano la città, ma che territori (urbani) usano (e creano) le persone insieme.
Per farlo, occorrono letture capaci di restituire in termini chiare questioni complesse come quelle urbane. Non è un caso che l’ultima opera letteraria di Guido Martinotti “Sei lezioni sulla città”, edito da Feltrinelli a circa un anno della scomparsa dell’autore, sia impiantata, come dichiarato sin dal titolo, sulla volontà di costruire poche ma significative lezioni sulla città, tenute insieme da un sapere autenticamente curioso e, insieme, rigoroso, nello spiegare fatti in buona parte ignoti, dimenticati o poco esplorati, in un linguaggio comprensibile. Lezioni, dunque, nel senso più proprio di lettura approfondita e chiara di un testo – in questo caso, la città.
É questo il lascito maggiore di Guido Martinotti, che Fondazione Giangiacomo Feltrinel-li ha raccontato il 6 dicembre scorso attraverso la lecture di Manuel Castells “La città dei flussi e della tecnologia”, con cui il sociologo spagnolo, omaggiando il collega ita-liano, ha definito i temi e i modi per affrontare il progetto del futuro urbano.
Un modo che coniuga la lettura critica alla volontà di traduzione politica dei temi e fondamenti del nostro presente. Un approccio, questo, che è anche un’azione di contra-sto alla scompaginazione delle coordinate interpretative di riferimento attraverso lo studium, l’analisi appassionata, come unica maniera per dissipare l’incertezza, frantu-mare l’indefinito in pezzi che si possano analizzare da vicino e provare a ricomporlo in quadri di senso.
Mentre l’urbano sconfina e al contempo si frammenta in una molteplicità di muri inter-ni, mentre emergono nuove necessità e modalità di gestione, mentre gli attori urbani cambiano e ne appaiono di nuovi sulla scena, mentre i modi in cui facciamo città ap-paiono inediti, indefiniti, indecifrabili, la voce di Guido Martinotti risuona e ci provoca a confrontarci da vicino con la domanda su come conviviamo e come vivremo insieme in futuro, spronando, per capirlo, il gioco d’unione di punti separati – storie, saperi, letture, percezioni – che messi in connessione lasciano intravedere delle risposte.
In un periodo di incertezza in cui le narrazioni fittiziamente rassicuranti devono lascia-re il posto a occasioni concrete di ideazione e verifica del “come si può fare”, il futuro può diventare, da ciò che non è e non si riesce a pensare, ciò che si può immaginare, desiderare, aspettare “di” realizzare, anziché aspettare “che avvenga”, arrivando a di-re, finalmente con parole piane come quelle finali del bambino dell’apologo Zen che apre questo contributo, dove stiamo andando.

L’AMBIVALENZA URBANA

Nella prima delle sue “Sei lezioni sulla città” (Feltrinelli, 2017, pp.29-31), intitolata “Cos’è la città”, Guido Martinotti mette a fuoco il carattere costitutivamente ambiva-lente della città. È lo spazio in cui la società si addensa e aggrega, viene ad “abitare insieme” come dice la parola greca “sinecismo”, che nell’antica Grecia era il concen-tramento in un unico ambiente della popolazione prima sparsa in borgate e campagne. Da allora, la città si è di molto complicata tanto da riproporsi ancora, secondo Secchi, Castells, Donzelot, come uno spazio di divisioni e rimossi, crescenti disuguaglianze e pluralità sofferta di bisogni che necessità di nuove forme di ascolto e di governo.
In questo spazio di domanda, l’interrogativo martinottiano su quale forma di società abbia le caratteristiche e le capacità per costruire delle città resta aperto. Affrontarlo significa domandarsi come lo sviluppo delle città generi l’idea che esistano “soggetti altri” titolari di diritti diversi dai nostri e come i sistemi urbani (dalla mobilità all’ambiente, ai circuiti economici non convenzionali) possano essere ristrutturati per rendere le città più giuste e inclusive. Per ripensare, entro i limiti del possibile, le condizioni di possibilità della convivenza. O, in altre parole, di cosa può essere fatta la parola “con”.

La città è senza dubbio un oggetto inerentemente ambivalente e persino ambiguo, e perciò ingannevole per chi pretende analisi troppo spicce, ma questa sua ambivalenza non è un fatto metafisico perché ha radici piuttosto concrete, che possono essere esplo-rate analiticamente. Innanzitutto lo è perché è un oggetto grande e complesso, e dun-que le sue diverse componenti sono difficili da sintetizzare, ma, e soprattutto, perché di fatto in ogni città e nell’idea generale di città, esistono due piani interrelati stret-tamente interconnessi. Uno è quello della “città visibile” – meglio ancora “osservabile” – familiare a ogni abitante in ogni epoca (“eist enpolin”, “Là è la città”, come secondo la leggenda diceva il villico ellespontino al viandante, indicando Bisanzio e usando l’espressione da cui sarebbe nato poi il nome della città di Istanbul). Se mostriamo a non importa chi l’immagine di una città qualsiasi, essa verrà immediatamente ricono-sciuta in quanto tale, nonostante le forme e le tipologie urbane siano numerosissime. Esiste però un’altra città che non può essere osservata, almeno non per mezzo di una qualsivoglia lunghezza d’onda fisica, ed è la società urbana, e cioè la città oggetto dell’indagine sociologica, che non solo è reale quanto quella visibile, ma è al tempo stesso artefice e artefatto di quella visibile, con la quale dunque costituisce un insieme inestricabile, talché le componenti materiali e immateriali del fenomeno urbano diven-tano tutte ugualmente importanti. Non tutte le società producono città, quindi si pone il problema di capire, nei limiti del possibile, a quali condizioni una società umana produca città. Si è anche sostenuto, per esempio da parte di Ed Soja, che la città sia il prodotto, per così dire inevitabile o quanto meno necessitato, della società umana, risultato di un fattore profondo che sarebbe la spinta degli umani ad abitare assieme, cioè il “sinecismo”, da συνοικεῖν.
Ma non vi è evidenza storica che sostenga questa affermazione: il “sinecismo”, che è senza dubbio un aspetto della caratteristica propensione alla socialità della specie uma-na (per esempio, a differenza di molte specie feline), non si traduce necessariamente in forma urbana. Lo possiamo constatare nei numerosi casi in cui grandi civiltà urbane declinano o scompaiono (pensiamo al caso ben documentato della civiltà micenea) e i centri principali sono sostituiti dai villaggi (damai) che spesso sono anche gli stessi che preesistevano allo sviluppo della città palaziale: il sinecismo non viene meno, ma si manifesta in forme diverse ed è appunto l’individuazione dei fattori che determinano l’una o l’altra delle diverse forme insediative che ci aiuta a capire quali siano le com-ponenti specifiche dello stare assieme in città, falsificando l’ipotesi meccanica di un generico e generalizzato synoikein come elemento costitutivo della città.

Piero Della Francesca, La città ideale

 

È vero che la specie umana è una specie sociale, zoón politikón, anzi, come dice Walter G. Runciman, un animale molto sociale, polipolitikón. Una specie composta di individui con un grande cervello che sono portati a interagire intensamente con altri individui con un grande cervello, dando luogo a una ricca produzione simbolica.
Ma questa spinta strutturale verso la socialità, questa caratteristica innata, non si traduce meccanicamente in forma urbana, né lungo la storia della specie, né oggi-giorno, in un “mondo di città”, in cui tuttavia ancora una larga parte della specie umana vive allo stato nomadico, o tribale, o in piccoli insediamenti abitati da contadi-ni, quando non in abitazioni sparse di independent farmers familiari, se non in altre forme di economia pre o protoneolitica di raccolta, caccia, pesca o rudimentale orticul-tura. Poiché la civiltà urbana è oggi dominante, si è persino persa la cognizione di co-me apparisse e come potesse funzionare una grande società nomadica come quella dei tartari o mongoli, ma se leggiamo l’affascinante Itinerarium, o Viaggio in Mongolia, del francescano fiammingo Guglielmo di Rubruck, 1252-1255, veniamo subito colpiti da alcune particolarità. Intanto il viaggio di un monaco che pacificamente si muove nel cuore di quello che allora era considerato il popolo più feroce della terra, senza testi-monianza di episodi di cannibalismo o delle altre efferatezze che si attribuivano allora ai nomadi mongoli. Probabilmente anche a causa dell’estraneità linguistica; in Europa e anche nel mondo mediorientale, nonostante la molteplicità delle parlate, ci si poteva comprendere con il latino (o il greco), ma i mongoli sono all’esterno di questa koinè linguistica. La cosa che più colpisce, tuttavia, la vastità del territorio che in parte let-teralmente disabitato (non deserto), per ragioni naturali (ci sono città insediate in luo-ghi anche più aspri del centro Asia) ma soprattutto perché l’economia nomadica fa sì che dopo il passaggio dell’orda nomade non rimangano tracce stabili (built up areas). Frate Guglielmo ha osservato abitazioni (yurte, di legno e feltri colorati, dove ancor oggi vive la met. della pur urbanizzata Mongolia) della dimensione di parecchi metri di diametro che si muovevano trasportate su un carro. E le abitazioni più ricche erano corredate da armadi fissati su alti carri in modo da non essere bagnati durante i guadi: Guglielmo vide yurte attorniate da centinaia di questi carri. Ma per chi, come gli occi-dentali, è convinto che la politicità (o la socialità) sia
necessariamente dipendente dalla propinquità, l’aspetto più interessante del racconto è che, per partecipare alle assemblee importanti, i capi tribù periferici abbandonano con tutta la propria orda anche vasti e lontanissimi territori conquistati in passato; per esempio, Batu Khan, per partecipare al Kuriltai (assemblea dei capi) susseguente alla morte di Ogudai, nel 1241, abbandona l’Albania e ripercorse a ritroso tutta la Bulgaria; naturalmente mettendo
a ferro e fuoco tutte le città incontrate sulla via, non diversamente, peraltro, da come usava fare qualsiasi esercito europeo di quelle ere. A sud di Port Sudan si stende un’ampia regione semi-desertica centrata sull’antica città di Suakin, per molto tempo una città morta dopo essere stata per lunghi secoli uno snodo importante delle carovane dirette alla Mecca e a Medina. Se la percorrete in auto sembra spopolata, ma se vi fer-mate e salite sul tetto dell’auto o su una qualsiasi piccola elevazione vi rendete subito conto che vi trovate in mezzo a una vasta ramificazione di sentieri percorsi da figure colorate, soprattutto, ma non solo, donne con i loro figli e carichi vari. Fanno parte delle tribù Beja, nomadi allevatori di cammelli, parzialmente sedentarizzati in villaggi che si vedono qui e là. Il supposto deserto si rivela un’area brulicante di persone che viaggiano incessantemente da una parte all’altra. Non ovviamente la metropoli di Simmel né la “fourmillante cité” di Baudelaire, ma è un’area popolata e popolosa.
Quindi, sia nel lungo passato che nel vasto presente, il sinecismo urbano è solo una delle varie forme insediative possibili, il che pone inevitabilmente il problema di stabilire quale forma di società, tra le molte possibili e storicamente esistite, abbia le caratteristiche e le capacità per costruire delle città.
 

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