Fin dall’estensione del suffragio universale (dapprima solo maschile) nel corso dell’epoca moderna, il dibattito sulla qualità dell’informazione disponibile al pubblico, sul tasso di alfabetizzazione dei cittadini-elettori e quello inerente la connessione fra educazione e partecipazione civica, ha sempre impegnato coloro che si interrogano sulla qualità della democrazia e delle istituzioni liberali.
Questo dibattito è di recente tornato di grande attualità a causa della crescente disintermediazione fra cittadini singoli e istituzioni pubbliche e politiche, della diffusione di new media e social media come principale – talvolta – vettore di informazione, discussione e formazione dell’opinione pubblica, e del crescere di fenomeni che – meramente per esigenza di brevità – etichetteremo come “populisti”. La perdita di legittimazione delle autorità (politiche, ma non solo, poiché essa riguarda anche le istituzioni scientifiche, i tradizionali mezzi di informazione ecc.) ha condotto ad una proliferazione di mezzi di informazione “alternativi”, di modalità di organizzazione e di discussione para-pubbliche, di sperimentazioni politiche eccentriche rispetto a quelle tradizionali (l’esempio più significativo è la nascita di un partito-azienda come il M5S che assume fin dallo status giuridico l’impostazione di S.r.l.). L’espressione della domanda da parte di un numero crescente di cittadini di nuovi riferimenti si è andata sviluppando in parallelo ad un altro, ben più profondo, fenomeno sociale: la crescita dell’analfabetismo funzionale e di forme di degrado culturale diffuse.
Lo HUMAN DEVELOPMENT REPORTS del 2009 suggerisce che il tema riguardi in Italia il 47% della popolazione; non dà risultati migliori il più recente rapporto OECD Skills Outlook 2013: First Results from the Survey of Adult Skills nel quale, ad esempio, si legge che in Italia più del 23% della popolazione non ha esperienza o le basilari competenze necessarie all’ utilizzo di ICTs (Information and Communication Technologies) per mansioni quotidiane. Secondo le analisi svolte da Tullio de Mauro solo il 20% della popolazione italiana possiede le competenze necessarie ad orientarsi nella complessa realtà contemporanea. Questi dati non possono che essere incrociati con la crescente tendenza dei Governi democratici a promuovere consultazioni referendarie su temi che presentano importanti aspetti “tecnici” (si pensi al caso del memorandum greco del Luglio 2015 o alla consultazione sulla Brexit del 2017), sollevando una serie di perplessità sulla possibilità per il “cittadino comune” di scegliere liberamente ed entrare in pieno possesso delle informazioni necessarie a questo scopo su temi così rilevanti.
La reazione di alcuni commentatori, anche illustri, a questo tipo di mancanza di corrispondenza fra competenze e conoscenze diffuse e complessità della materia elettorale, è stata quella di rimettere in discussione il principio stesso del suffragio universale. Alcune di queste voci sono richiamate nell’articolo “Contro il suffragio universale” di Luigi Mastrodonato: dal volume del 2016 di Jason Brennan, professore alla Georgetown University, Against democracy che propone un “test” per gli elettori, alla proposta di David Van Reybrouck che nel 2015 in Contro le elezioni propone un ritorno al sorteggio. Il 20 Maggio del 2016 il Washington Post propone come ricetta “anti Trump” lo schermo anti-ignoranti di David Harsanyi: “Any effort to improve the quality of the voting public should ensure that all races, creeds, genders and sexual orientations and people of every socioeconomic background are similarly inhibited from voting when ignorant.”
Il problema dell’ignoranza e dei suoi effetti all’interno della dinamica democratica è da sempre un tema al centro della riflessione del liberalismo classico. Infatti, all’indomani della rivoluzione francese, la preoccupazione di nobili intellettuali come ad esempio Benjamin Constant era proprio quella di non parteggiare per il ritorno all’ Ancien Régime e tuttavia cercare di limitare i potenziali “danni” (dal loro punto di vista) del nuovo corso democratico. Sono note le condizioni minime identificate dal pensiero liberale per raggiungere questo scopo: la tutela della proprietà privata, la salvaguardia delle minoranze à la Tocqueville dalla “dittatura della maggioranza” tramite forme di limitazione del potere, la sacralità della Rule of Law, la piena libertà di parola e della stampa. È nota la proposta presente negli scritti dei fautori del liberalismo classico di introduzione di una sorta di “voto ponderato” a seconda della ricchezza posseduta: la motivazione sarebbe che solo il benestante possa disporre del tempo libero necessario ad informarsi, studiare e attivamente e qualificatamente contribuire alla vita pubblica. Coloro che devono lavorare per sostentarsi non possono disporre di questa risorsa: d’altro canto la parola stessa “scuola” significava in greco “tempo libero”. I liberali vedevano nella democratizzazione un processo potenzialmente foriero di nuovi dispotismi: Tocqueville suggerisce come rimedio a questa eventualità la costruzione di una viva e vitale società civile nella forma dell’associazionismo e dei “corpi intermedi”, Constant nel controllo perenne del Governo e del potere da parte dei cittadini. La possibilità materiale di dedicarsi a queste attività ne è un elemento caratterizzante. Il cosiddetto “cittadino monitorante” è in questo senso un’invenzione liberale e, all’interno di quel pensiero, corrisponde alla nozione di cittadino tout court poiché appunto, secondo Constant e altri, chi non ha accesso all’istruzione e alla proprietà non può avere accesso ai diritti politici.
Principles of politics applicable to all governments di Benjamin Constant, il testo nel quale sono contenute alcune delle riflessioni a cui si è fatto riferimento, risale al 1815. A due secoli di distanza, il tema del rapporto fra istruzione, suffragio e libertà rimane ancora attuale e tuttavia aggravato dalla rimessa in discussione de facto delle conquiste intorno all’istruzione universale garantita che in larga parte dell’Europa Occidentale sembravano essere state acquisite durante i “trenta gloriosi” dello Stato Sociale.
L’analfabetismo di ritorno, l’aumento del tasso di analfabetismo funzionale, così come l’impossibilità materiale a causa di condizioni di privazione o turni di lavoro eccessivamente onerosi per i cittadini di dedicarsi alla cosa pubblica, non dipendono da un meccanismo “naturale” di esclusione di alcuni come poteva essere per la donna nella concezione antica aristotelica, né da una pregiudiziale di stampo culturale comparabile a quella dei liberali del diciannovesimo secolo, ma da scelte squisitamente politiche sullo stato dell’istruzione nel Bel Paese. L’Italia si assesta oggi sul 14% di abbandono scolastico (fonte Eurostat, 18-24 anni), che oscilla dal 10% del Nord al 20% del Mezzogiorno. Nel rapporto di Eurydice sulle politiche di aiuto all’istruzione, l’Italia figura nel quadrante nel quale sono raccolti i paesi che abbinano un’alta percentuale di studenti che paga le tasse ad una bassa percentuale di beneficiari di borse di studio.
Si colloca altresì nel gruppo di stati con le tasse per istruzione superiore più elevate d’Europa, se si eccettua la Gran Bretagna. Sempre da indagine Eurydice si evince che l’Italia non si inserisce nel generale trend europeo di aumento delle retribuzioni per il personale insegnante delle scuole pubbliche di livello primario e secondario. A chiudere il cerchio, nel 2017 secondo Eurostat l’Italia è penultima in UE per numero di laureati fra i 30 e 34 anni, oltre che ampiamente sotto la media europea e uno degli ultimi paesi UE nel 2016 per spesa in istruzione in rapporto al PIL. Se questo è il quadro, diventa sempre più difficile stupirsi per la diffusione di fake news, dibattiti che rimettono in discussione alcuni capisaldi del pensiero scientifico e un numero sempre crescente di individui privi di punti di riferimento istituzionali e, parallelamente, di competenze utili per distinguere le fonti verosimili da quelle inverosimili di informazione alle quali si rivolgono. Infatti, come rileva Emiliana De Blasio nel suo saggio contenuto in Populismo di lotta e di governo (FGF, 2018) “Sicuramente, l’infrastruttura digitale favorisce la diffusione rapida di sciocchezze e menzogne, contribuisce a rendere virali notizie impossibili, teorie non dimostrate, supposizioni fantasiose e menzogne spacciate per verità incontrovertibili. Ma il problema è nella struttura delle democrazie liberali, incapaci di compiere il loro processo di maturazione verso una reale eguaglianza e così inevitabilmente avvitate in un loop intrinsecamente antidemocratico, come notato da Colin Crouch nel 2003.” (P.164)
Le nuove frontiere della comunicazione e del dibattito non fanno dunque altro che amplificare fenomeni e dinamiche le cui principali cause sono da ricercarsi nelle situazioni economico-sociali occasionate dall’aumento delle diseguaglianze, dal complessivo impoverimento del tessuto culturale e del progressivo sfaldamento di quelle reti (partiti, sindacati ecc.) che ebbero nel novecento oltre che una funzione organizzativa e mobilitante anche un fondamentale ruolo pedagogico per le grandi masse, funzione mai sostituita da attori e soggetti collettivi altrettanto solidi e autorevoli.
Da ultimo, dunque, la scelta politica rimane sempre se eradicare le cause del problema (nel caso qui trattato, assicurando un’istruzione pubblica realmente universale e di qualità) o adeguarsi alle conseguenze (proponendo ad esempio di restringere il diritto di voto o operare forme di esclusione dalle decisioni di alcune fasce di società). Una volta, ben prima del diffondersi delle fake news, si sarebbe forse detto che proprio su crinali come questo passa la distinzione fra sinistra e destra.