Dieci anni di crisi economica impongono una lettura del nesso tra i due concetti, globalizzazione e sostenibilità, come un nesso quanto meno problematico, se non addirittura dicotomico. Così, anche parlare di “crisi” risulta fuorviante e riduttivo: la degenerazione verso l’insostenibilità del moderno sistema capitalistico, improntato alla “globalizzazione”, è probabilmente un dato fisiologico e non patologico del sistema stesso. Ripensare il capitalismo appare dunque come una necessità, tanto teorica quanto pratica – nelle pratiche di governo e di interazione e integrazione sociale – se alle criticità della globalizzazione si vuole dare una risposta che non rifiuti la modernità e i caratteri di progresso che alimentano questo fenomeno e da questo sono a loro volta generati, ma che allo stesso tempo affronti le molteplici insostenibilità che sempre di più stanno emergendo: sociali, economiche, ambientali, politiche. È questo l’obiettivo che la Fondazione Feltrinelli si pone per questa stagione di ricerca, approfondendo in particolare l’insostenilità di un sistema che sempre meno riesce a garantire anche solo le risorse primarie – acqua, cibo, salute – a una grande maggioranza di persone.
Questa maggioranza che vede retrocedere le proprie condizioni di vita si è espressa in recenti episodi elettorali che hanno violentemente squarciato il velo sulla complicata relazione intercorrente tra globalizzazione e sostenibilità: esempi ne sono le elezioni di Trump e Bolsonaro, il referendum sulla Brexit, la formazione, in Italia, del primo governo tra gli storici membri dell’UE fondato sulla esplicita (e strillata) opposizione alle dinamiche cosmopolitiche della globalizzazione.
Semplificando, il dibattito pubblico circostante gli eventi ricordati sembra giocato sulla percezione di una ormai insostenibile condizione di diritti (civili e politici) senza democrazia, avente come capro espiatorio il mondo globalizzato, le sue istituzioni e la sua ideologia, cui è stata contrapposta, come unica proposta alternativa ritenuta credibile da un corpo elettorale stremato, la esplicita prospettiva di una democrazia illiberale, pronta a chiudere un occhio o a retrocedere nel campo dei diritti civili e politici, pur di provare a tornare ad avere un qualche controllo sulle proprie condizioni materiali di esistenza, vera sostanza di un regime democratico. Risalta quindi l’insufficienza di una democrazia concepita come regime determinato essenzialmente dalle procedure, e il ruolo chiave giocato dal deteriorarsi dei diritti sociali e degli standard di vita nelle vicende sopraelencate.
Sia detto en passant, il ripensamento del sistema economico e, quindi, la definizione di un nuovo patto sociale non possono che mettere in discussione la teoria economica da alcuni decenni egemone in accademia e nelle menti dei decisori politici (e di tutti noi): se non altro, per il fatto che prevede soltanto la possibilità di shock esogeni come meccanismo di turbamento di un ordine economico altrimenti in condizione di equilibrio naturale, o tendente ad esso. Su questa teoria si sono fondate per altro le scelte di policy che hanno definito i caratteri del sistema economico globalizzato; veniva così trascurato come nel mondo “reale”, ad esempio, la concorrenza perfetta dei manuali di macroeconomia lasci spazio alle grandi concentrazioni di capitali, capaci di influenzare le politiche governative impattando su attori marginali come, ad esempio, i piccoli agricoltori e altri attori svantaggiati perché lontani dal centro di gestione ed influenza del potere politico-economico; grandi aziende e fondi di investimento esercitano potere e controllo su occupazione, parametri di governance, forme di produzione, consumo e distribuzione, in un contesto in cui, tra l’altro, a questa estrema concentrazione dei capitali corrisponde una fortissima frammentazione del lavoro, con conseguenze negative per la possibilità di sostentamento dei sistemi di welfare pubblici, sempre più impoveriti e predati. Una reale minaccia per la capacità della democrazia di prestare fede alle sue promesse di uguaglianza politica, di inclusione nella cittadinanza e di garanzia dei diritti fondamentali quali l’accesso al cibo e alla salute.
A dimostrazione di ciò, emergono dei dati che fanno riflettere, riferiti al progressivo – quasi compiuto – processo di accentramento industriale nel settore agroalimentare: dati Ipes 2018 mostrano che acquisizioni e fusioni a livello internazionale hanno portato tre multinazionali a controllare e gestire più del 70% dei prodotti fitosanitari per l’agricoltura e più del 60% delle sementi a livello globale, con elevati rischi per l’accessibilità delle stesse e la biodiversità a livello locale. Infine, anche nella fase di trasformazione alimentare di cibo e bevande, le dieci più grandi aziende del settore posseggono quasi il 40% della quota totale di mercato, confermando un trend di acquisizioni ormai presente in tutti i livelli della catena produttiva globale. L’ambiguità di tali processi, da un lato motivata dall’acquisizione del controllo del settore, dall’altro dal naturale processo competitivo tra player di mercato, riduce ancora di più lo spazio di azione – normativa e politica – degli attori pubblici, sovrastati dagli impatti economici – sia territoriali che comunitari – di tali processi. Immaginare delle alternative possibili, in antitesi con gli aspetti più pericolosi di tale deformazione del sistema capitalistico, è necessario quanto complesso: accanto all’attore pubblico, attivo a tutti i livelli, esiste infatti un settore privato vittima esso stesso di tali squilibri: piccole imprese, piccoli agricoltori, piccoli rivenditori. Non è più dunque solo una questione tra attori privati mossi da logiche capitalistiche estremizzate che si confrontano con attori pubblici e cittadini impattati negativamente da tali disequilibri, ma uno scenario più articolato in cui la dicotomia fondamentale ruota attorno alla vicinanza ai capitali finanziari globali. All’interno di questo quadro, sicuramente, esistono attori doppiamente marginalizzati: soggetti deboli perché impoveriti, privati della loro identità territoriale e politica, resi silenti da un sistema di circolazione della conoscenza e delle risorse che non li vede al centro. Nel settore agroalimentare, ad esempio, è il destino di comunità locali ed indigene, piccoli agricoltori non rappresentati, ecosistemi fragili, consumatori ignari dei propri acquisti e consumi, questi ultimi sempre più divenuti scelte politiche, oltre che economiche. Leggiamo nelle parole di Ian Goldin, a commento delle nostre attività, la necessità di uno sforzo per riposizionare la dialettica tra produttori, consumatori, comunità e ambiente è necessario per riorganizzare le logiche del modello economico e produttivo, imparando dagli errori commessi e creando le condizioni di fiducia reciproca tra gli attori affinché non si ripetano meccanismi di esclusione, isolamento e impoverimento che hanno già mostrato i loro effetti disgreganti.
Volendo aggiungere a questo scenario di ricerca sul rapporto tra globalizzazione e sviluppo una terza dimensione dopo quella riferita alla carente democraticità dei modelli e alle problematiche ambientali, in particolare nel settore agroindustriale, un nuovo scenario di analisi e confronto ci è offerto dal (dis)articolarsi delle politiche sanitarie globali, divise tra approcci privatistici e pubblici, inclusivi ed esclusivi, specializzati e generalisti. Anche qui, la concentrazione di capitali, risorse e conoscenza nelle mani di sempre meno attori, coincide con un progressivo indebolimento della capacità di fruizione, da parte dei singoli cittadini, dei sistemi di welfare pubblici nazionali, laddove presenti e con un peggioramento del benessere collettivo. Conseguenza di ciò è il mutare della natura e della portata delle policy sanitarie – strategie, servizi, ricerca di base, modelli – e il nascere, così, di nuovi squilibri da analizzare. Questi ultimi emergono in modo sempre più visibile analizzando alcuni epifenomeni di portata crescente, come il progressivo aumento di consumi di psicofarmaci nelle economie avanzate e la progressiva esclusione di un sempre maggior numero di persone dalle cure sanitarie di base.
Ripensare la prassi del capitalismo non può che partire quindi dalle teorie economiche concorrenti e alternative, che si rispecchiano in parte in esperienze pratiche di “economie resistenti” rispetto al modello capitalistico neoliberale, che lo sfidano, aspirando ad uscire dalla gabbia ideologica del TINA – There is No Alternative.