Si propone un estratto dal libro Che cos’è un Intellettuale? di Tomás Maldonado
L’indagine sul ruolo degli intellettuali è apparsa sempre legata, per motivi più che ovvi, alle questioni attinenti ai rapporti tra sapere e potere, tra pensiero e azione, tra teoria e pratica, tra utopia e realtà. […]
E’ giusto affermare, come accade sempre più spesso, che l’intellettuale, genericamente inteso, debba essere giudicato ormai un attore sociale senza futuro, soltanto un vestigio del passato? Mi sembra una conclusione troppo sbrigativa per essere attendibile. […]
La dinamica della storia delle idee è impensabile al di fuori della storia degli intellettuali che hanno reso possibile la dinamica del mutamento e dell’innovazione. È impensabile senza ricollegarsi a quegli intellettuali che, con il loro pensiero indocile, anzi spesso sovversivo, hanno contribuito a mettere in crisi i valori fondanti dei dogmi, delle credenze, dei costrutti ideologici vigenti nelle società e culture di appartenenza.
Benché la vocazione di questi uomini sia stata, in sostanza, la stessa, ossia la vocazione a dissentire, a pensare diversamente, lo stendardo ideale che innalzavano non è stato sempre il medesimo. Neppure il bersaglio del loro dissenso. Per rendersene conto basta percorrere l’elenco delle qualifiche che, nel corso della storia, sono state loro attribuite: cinici, stoici, eretici, mistici, gnostici, scismatici, millenaristi, goliardi, protestanti, melancolici, utopisti, illuministi, anarchici, socialisti.
Ma non è una forzatura accomunare in un’unica famiglia uomini che esprimono correnti di pensiero nate in contesti storici tanto differenti? Che cosa hanno in comune, per esempio, uomini come il cinico Diogene di Sinope, il mistico Suso, l’eretico Bruno, l’utopista Moro e il socialista Marx? La mia risposta, seppure (lo ammetto) forse non del tutto persuasiva, ha il merito di essere almeno plausibile: ciò che hanno in comune è la loro eterodossia. Fino a prova contraria, non vedo alcunché di ardito nel supporre che essi personifichino, ognuno a suo modo, una qualche forma di eterodossia.
Rilevo un altro aspetto della questione dell’eterodossia. È indubbio che c’è un elemento che accomuna, sul piano concettuale, tutti gli eterodossi di tutte le epoche e in tutti i contesti sociali e culturali. Esso è facilmente intuibile ricorrendo all’etimologia greca della parola: héteros, altro, diverso; dóksa: opinione. In breve, gente con un’altra opinione. Il che ci fornisce una chiave interpretativa giusta, ma ancora troppo vaga.
Cerchiamo di precisarla: per eterodossi si devono intendere qui tutti coloro che, in un modo o nell’altro, agiscono in contrapposizione ai dogmi, ai corpi dottrinali, ai modelli di comportamento, agli ordinamenti simbolici, e anche agli assetti di potere esistenti. Tutta gente che, come Guglielmo Lunga-Barba nella Londra del 1196, voleva “fare cose nuove” (moliri nova). Ribelli, oppugnatori, antagonisti, trasgressivi, insomma dissidenti per vocazione, e in certi casi apertamente eversivi, rivoluzionari. La tradizione degli eterodossi è sicuramente la tradizione degli intellettuali.