Università degli Studi di Urbino
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e PoliS-Lombardia
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Alla luce dei risultati delle elezioni presidenziali in Brasile con la vittoria del candidato dell’estrema destra Jair Bolsonaro e in vista delle Midterm negli USA previste per il prossimo 6 novembre, pubblichiamo alcuni spunti di riflessione a partire dall’articolo di Benjamin Fogel “Against Anti-corruption” sul ruolo che la lotta alla corruzione ha avuto nel ridefinire le priorità della politica in questi anni di crisi economica e di instabilità. L’anticorruzione è diventata un problema politico e gioca un ruolo di rilievo nel dare sostanza ai fenomeni diffusi di “anti-politica”, con esiti talvolta non democratici e reazionari. Se da un canto, l’anticorruzione ha invocato soluzioni tecniche, solo apparentemente trasparenti e lontane dall’ideologia, dall’altro ha anche alimentato risposte politiche populiste e moraliste. Si tratta certamente di un fenomeno complesso ma, ormai, transnazionale.

 


Introduzione di Rosa Fioravante


Si è molto discusso della fine delle ideologie e dei nuovi assi di conflitto sui quali si basa lo scontro politico propriamente detto o lo scontro pre-politico, su variabili ad esempio nazionali, etniche, religiose ecc. Uno dei refrain di maggiore successo, nell’epoca che è stata definita post-ideologica, è stato quello intorno all’onestà dei politici e alla lotta contro un establishment considerato corrotto e compromesso. Una specie di nuovo cleavage fra onesti e disonesti, fra casta e gente, fra compromessi e non.

 
Questo tipo di discorso, quando si cala nella realtà del dibattito politico, assume molte forme: quella dell’antipolitica in senso stretto, di chi rifiuta di interessarsi ad uno scenario nel quale sembrano “tutti uguali”; quella propagandata dai sostenitori della globalizzazione neoliberista, che insistono sulla necessità di avere “tecnici” al Governo e non politici perché così non ci si lega agli umori dell’elettorato; talvolta persino quella del civismo e di alcuni movimenti, come rifiuto delle strutture organizzate e di rappresentanza politico-partitica in quanto additate come burocratiche e conservatrici. Tutte queste opzioni insistono, in modo differente e da punti di vista eterogenei fra loro, sulle conseguenze della corruzione e non sulle sue cause e indeboliscono lo scontro politico come rappresentanza di interessi anche contrapposti.
 
Al di là di una parte di incontestabile distanza fra eletti e costituencies, determinata dalla degenerazione del personale politico sempre meno formato nella società e sempre più fra carriere difficilmente accessibili ai ceti svantaggiati, l’attacco alla politica e ai politici per mezzo del concetto di “onestà” offre una facile distrazione retorica rispetto al confronto sui programmi, sulle modalità di formazione della classe dirigente e, in ultima istanza, sugli interessi economici e sociali che (onesti o corrotti) i politici difendono. Questo tipo di discorso, non solo non considera il tema della corruzione in senso ampio delle élites, che riguarda anche il settore privato, ma finisce per oscurare ogni altro scontro sul merito delle policies e sul modello di società che viene proposto ai cittadini dalle opzioni in campo. Non a caso, quando invece la differenza sui temi e, in un certo senso, proprio quella ideologica, torna in primo piano, la questione dell’onestà diventa uno dei fattori in gioco nelle campagne elettorali e nel rapporto fra cittadini e istituzioni, ma non la principale variabile.

 

Dimostrazione di ciò si può trovare, ad esempio, nella campagna delle primarie 2016 che ha visto protagonisti Hillary Clinton e Bernie Sanders negli states: nella sfida fra una delle figure più note e quindi anche più esposte a scandali e passi falsi durante una lunghissima carriera – oltre che dai significativi legami col mondo della finanza e del big money – e un semi-sconosciuto Senatore del Vermont che per decenni ha sempre rifiutato i finanziamenti di Wall Street e delle multinazionali, insistendo nel Congresso su alcune vertenze riguardanti la propria costituency e alcuni temi sociali forti, era chiaro che la bandiera dell’onestà avrebbe potuto essere brandita soprattutto da una parte, eppure Sanders non la ha mai utilizzata. Di più, durante il primo dibattito televisivo, alle insistenti domande dei giornalisti nei confronti di Clinton a proposito del cosiddetto email-gate l’aveva vista coinvolta, Sanders è intervenuto chiedendo di non parlare di bassa politica ma concentrarsi sui programmi. Ai molti supporters del Senatore socialista che diffondevano materiale sui casi di corruzione della Clinton è stata più volte contrapposta una comunicazione ufficiale esclusivamente basata sulle differenze di voto nel passato all’interno del Congresso: sull’abrogazione del Glass-Steagall Act, su trattati quali NAFTA e TPP, sulla guerra in Iraq, alcuni degli esempi di voto contrario di Sanders e favorevole di Clinton. La coerenza fra le proprie posizioni sostenute in campagna elettorale e le azioni una volta conquistato il ruolo istituzionale emergeva infatti come una cartina di tornasole della fedeltà agli elettori assai più utile dell’onestà intesa come valore morale assoluto.

Il Senatore del Vermont è stato uno dei maggiori (se non l’unico talvolta) sostenitori dell’introduzione del finanziamento pubblico della politica negli USA. Infatti, secondo Sanders, l’unico modo per combattere l’establishment finanziario e permettere ai cittadini di eleggere dei rappresentanti che rispondano a loro e non alle lobby e ai poteri economici che sostengono le campagne elettorali, è quella di non aver bisogno di sponsor facoltosi. La sua parabola, quella di un anziano eletto dagli anni ’80 in ruoli istituzionali, che ha raccolto una straordinaria ondata di interesse da parte del voto giovanile e riattivato diversi astensionisti, ha dimostrato che il tema del rinnovamento e dell’antipolitica hanno poco o nulla a che fare con un limite di mandati o con l’età anagrafica, ma tutto a che fare con il contenuto delle battaglie politiche che si fanno e come si costruisce il collettivo che le sostiene.

Non a caso, i molti scandali che stanno travagliando l’amministrazione di Trump, se hanno in parte contribuito a scalfire la sua popolarità, non costituiscono la più incisiva forma di opposizione. Quest’ultima sembra essersi piuttosto coagulata intorno alle proposte forti di redistribuzione del reddito e ricchezza, ecologismo, femminismo e rispetto dei diritti civili, proprie di larga parte dei candidati democratici alle elezioni di mid-term. Se l’onestà contribuisce a rafforzare il senso di legittimità della politica, essa può costituire semmai una sorta di pre-requisito, ma, come insegna la parabola di Sanders, non l’oggetto principe della contesa politica; pena la perdita di mordente sui reali temi di dissenso politico e sociale. Quando la morale si sostituisce al dibattito programmatico e sui fini perseguiti, essa finisce per distrarre dalla più grande immoralità del nostro tempo: lo scandalo del mondo più diseguale della storia.


 

Commento di Alessandro Guida Ricercatore di Innovazione Politica di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

 

Tutto come da pronostico. Con oltre il 55% dei voti, Jair Bolsonaro è diventato domenica il nuovo presidente del Brasile. La destra estrema, violenta, xenofoba, razzista, nostalgica di quella dittatura militare che soffocò il paese poco più di cinquant’anni fa è ora alla guida del gigante regionale.

Bolsonaro è espressione dei centri di potere economico e dell’alta borghesia nazionale, ma sembrano esservi pochi dubbi rispetto al fatto che la sua retorica abbia attecchito non solo in quella parte di ceto medio progressivamente spostatosi a destra a seguito degli scandali di corruzione che hanno interessato le forze del centro-sinistra, a cominciare dal Partido dos trabalhadores (Pt), ma anche in quello stesso sottoproletariato che aveva tratto qualche vantaggio dalle misure redistributive degli ultimi anni.

Tutto ciò chiama in causa indubbiamente il fallimento di quella sinistra riformista che ha governato il Brasile dall’ascesa al potere di Lula, nel 2002, al golpe blanco che ha condotto, nel 2016, alla destituzione di Dilma Rousseff e all’avvento di Michel Temer, e, più in generale, la crisi di un sistema politico che, dal ritorno alla democrazia, non è stato in grado di lasciarsi alle spalle alcuni dei suoi mali “storici”, fra cui, il forte personalismo e la corruzione diffusa.La presidenza dell’ex metalmeccanico e sindacalista Luiz Inácio da Silva era stata accompagnata da numerose aspettative agli inizi del Duemila. Anche in Brasile, infatti, al pari degli altri paesi dell’area, le ricette “neoliberiste” degli anni novanta, portate avanti durante la presidenza di Fernando Henrique Cardoso, avevano prodotto disoccupazione, drastica riduzione dei salari, crescita delle diseguaglianze e impoverimento delle classi popolari e dei ceti medi.

E, in effetti, pur seguendo una linea di sostanziale continuità economica, che tranquillizzò i poteri economici nazionali e internazionali, e pur dimostrando sin dal principio di prediligere la conciliazione e il compromesso a qualsiasi forma di rottura profonda dell’ordine politico ed economico, Lula favorì l’attuazione di riforme sociali che si dimostrarono capaci di produrre un generale miglioramento delle condizioni di vita di quella parte della popolazione (oltre il 40%) che viveva in condizioni di indigenza, se non di vera e propria miseria. Allo stesso tempo, sul piano della politica estera, il presidente cercò di dare al Brasile una nuova dimensione, quella di potenza regionale che puntava ad assumere la guida del “sud” del mondo.

Tuttavia, il riformismo di Lula sembrò caratterizzarsi per una forte carica assistenzialista, favorita dal buon andamento dell’economia nazionale, piuttosto che per una reale volontà di porre in essere cambiamenti radicali di tipo strutturale. Intanto, gli scandali di corruzione iniziarono a investire il PT e, come da “tradizione”, l’intero sistema dei partiti, a sinistra, al centro e alla destra dello spettro politico (incluso quello dell’attuale presidente).

Questo percorso venne sostanzialmente proseguito da Dilma Rousseff, le cui politiche di redistribuzione del reddito e di inclusione sociale vennero sostenute dalla crescita economica del paese e non si distaccarono molto dalla linea perseguita dal predecessore. Qualcosa in più venne fatto rispetto al cancro della corruzione, con la celebrazione dei processi dei politici coinvolti negli scandali e l’allontanamento delle mele marce dagli incarichi di governo e dal partito. Nessuna novità di rilievo si registrò, invece, sul fronte dell’altro male “endemico” del Brasile, la violenza diffusa, dove la risposta seguitò ad essere unicamente repressiva, consentendo ai militari di mantenere, se non, addirittura, di aumentare il proprio peso all’interno della società.

La profonda crisi economica che iniziò a investire il Brasile a partire dal 2011, costituì l’occasione per la destra ed i ceti medio-alti di mettere fine al lungo periodo di governo della sinistra. La progressiva rottura di quel patto di “non belligeranza” fra classi dominanti e subalterne su cui si era retto il lulismo sin dal 2002, aprì infatti la strada al golpe bianco che avrebbe condotto alla deposizione della presidentessa grazie all’azione congiunta dei media nazionali e della magistratura.
È stato in questo contesto di sfiducia, malcontento, erosione del prestigio delle istituzioni democratiche, a cominciare dal parlamento, e, in particolare, di tutto quell’establishment centrista che ha governato il paese dal ritorno alla democrazia, che Bolsonaro e la sua aggressiva retorica “antipolitica” sono riusciti a prosperare e a radicarsi.

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Commento di Andrea Califano
Ricercatore di Globalizzaizone e sostenibilità di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

 

“Senza riforme effettive del sistema produttivo e delle forme di distribuzione e appropriazione della ricchezza, non ci sarà né Costituzione né Stato di diritto capace di togliere il sentore di farsa alla politica democratica”. Questo diceva, negli anni travagliati della fine della dittatura in Brasile, Fernando Henrique Cardoso, grande intellettuale latinoamericano e poi presidente del Brasile prima dell’inizio della stagione di Lula e del Partito dei Lavoratori. Rimane da spiegare perché da questo si sia passati al sentimento diffuso – che ha probabilmente consegnato il gigante del sud del mondo, di nuovo, ai militari – che l’unica condizione, necessaria e addirittura sufficiente, per togliere questo sentore di farsa alla democrazia, sembra essere diventata quella della lotta alla corruzione.

L’articolo di Ben Fogel ritrae i caratteri globali di questa montante marea ideologica dell’anticorruzione; in Brasile, probabilmente, molti avevano pensato che il governo del PT avrebbe riformato il sistema produttivo, avrebbe messo fine alle ingiustizie, avrebbe finalmente fondato uno Stato di diritto capace di realizzare il programma implicito nella Costituzione del 1988. Nonostante il grande movimento di emancipazione popolare che hanno promosso nel Paese, Lula e Dilma non ci sono riusciti, e paradossalmente sono proprio i gruppi economici e sociali che hanno impedito questa profonda trasformazione, che hanno lottato in tutti i modi contro la piena realizzazione della democrazia, non disdegnando l’impiego di metodi apertamente antidemocratici, che adesso “passano all’incasso”, e sono capaci di indirizzare il consenso popolare – usando il grimaldello dell’anticorruzione – verso chi esplicitamente nega non solo la democrazia sociale, ma la stessa democrazia formale.

Ci sono motivi strutturali, legati alla crisi economica che da alcuni anni attanaglia il Paese, che aiutano a spiegare questo voto: la classe media, in gran parte “creata” dal PT, che a causa delle politiche di Lula ha visto spalancarsi davanti a sé opportunità che mai prima aveva avuto, che ha iniziato a viaggiare, che ha iscritto i propri figli all’università, si è sentita schiacciata tra due fronti. Da una parte, il muro delle élites, gelose dei propri privilegi, disposte a tutto pur di frenare questa ascesa, che comunque andava di per sé arrestandosi per l’esaurirsi della crescita economica. Dall’altra parte, avverte il baratro della ricaduta nella povertà, e immagina di riuscire a mantenere le opportunità guadagnate solo negandole a chi, dal basso, ne reclama anche per sé. Si incattivisce perciò nella negazione dei diritti a chi vive nella miseria, tipicamente disoccupati neri, abitanti delle favelas. Da qui anche i molti episodi di violenza registrati nel corso della campagna elettorale.

E poi c’è, per usare le parole di Laura Carvalho, giovane e nota economista brasiliana, un elemento della lotta di classe che va al di là dell’economico: è un elemento sociologico, che a questo si interseca e rende tollerate e anzi ben accette posizioni di una intolleranza aperta e estrema che a prima vista apparirebbe fine a se stessa. Bolsonaro ha costruito la campagna difendendo la tortura, auspicando il ritorno alla dittatura (in passato, ha teorizzato un piano di benefico sterminio di “circa 30.000” oppositori), chiamando alla fucilazione di indios, neri, e omosessuali. Ha concluso la campagna con un comizio in cui ha proclamato, testualmente che gli oppositori “se vogliono restare in Brasile, si dovranno sottoporre alla legge di tutti noi. O se ne vanno, o vanno in prigione.

Questi “scarti” rossi [le nostre “zecche rosse”] saranno banditi dalla nostra patria”. A differenza del ’64, anno di inizio della dittatura, c’è un partito di massa, il PT, abbastanza organizzato e radicato sul territorio da costringere un eventuale regime militare a una repressione lunga e profonda. “Ma, calma”, dice Laura Carvalho, “Non sono rossa. Non sono attivista di alcun partito. Non sono comunista. Mi considero una socialdemocratica. Non è che perché tutti i giorni mi definiscono comunista che allora mi devo sentire oggetto di questa minaccia, no? E se invece fosse così? Anche l’Economist è considerato rosso: chi decidono che è un rosso, diventa rosso. Quindi vuol dire che esiste una piccola possibilità che io debba uscire dal Paese o finire in carcere. Sono riusciti a farmi pensare questo. Questa è già l’inizio della fine delle libertà democratiche: mi sono svegliata con la sensazione di non appartenere più a questo Paese.”

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