Di seguito il commento di Rosa Fioravante all’articolo di Richard Bellamy Losing control: Brexit and the demoi-cratic disconnect, direttore del Max Weber Programme all’European Univesity Institute
“Non è Donald Trump che ha vinto, siamo noi che abbiamo perso”, così diceva Bernie Sanders ad una platea di democratici in un’occasione di confronto post-elettorale negli States. È la stessa logica che sembra potersi rintracciare in alcune delle riflessioni di Richard Bellamy intorno alla Brexit e ai destini dell’Unione Europea sotto attacco dei cosiddetti “euroscettici”.
Come egli acutamente nota, utilizzando la vicenda della Brexit come caso-studio, la campagna del Leave si è fondata principalmente sull’idea del “popolo che riprende il controllo”. L’argomento è noto: la globalizzazione finanziaria e in generale l’incremento della mobilità di merci, persone e capitali hanno determinato un restringimento del campo di azione dei governi nazionali e democraticamente eletti, attraverso lo spostamento dei centri decisionali dalle sedi politiche a quelle economiche. Argomento utilizzato dai movimenti cosiddetti “populisti-sovranisti” ma anche argomento storico delle sinistre di alternativa da Seattle e attraverso le rivendicazioni del “movimento dei movimenti”.
La campagna del Leave si è dunque appropriata di un tema, quello del deficit democratico spesso imputato innanzitutto alle strutture dell’Unione Europea, promettendo, nota sempre Bellamy, un ritorno del vincolo fra elettori ed eletti, maggiore capacità di influenza sulle scelte politiche e in generale maggiore controllo sulla determinazione dei propri destini per i cittadini. D’altro canto, la campagna per il remain avrebbe fallito nel propagandare cosa si sarebbe perso di positivo con l’uscita dall’Unione Europea (o direttamente nel sottolineare i vantaggi della permanenza); al di là dei vantaggi o degli svantaggi economici della scelta, il tema si poneva su un piano socio-filosofico, cioè sulle ripercussioni sul potere decisionale e le idee diffuse nel dibattito pubblico dei cittadini, e su quel piano si sarebbe dovuto giocare: “Ciò nonostante, un sondaggio di YouGov ha mostrato che il 60% dei votanti per la Brexit fosse convinto che i guadagni politici della Brexit avrebbero giustificato ogni potenziale costo economico (Gillett 2017)”. Una piccola rivincita della politica sull’economia: singolare se si pensa che il Regno Unito è stato patria del thatcheriano “There is no alternative” e del blairiano tentativo di “addomesticare” la globalizzazione, esperienze che avevano cercato di imbrigliare e subordinare la politica alle strutture economico-finanziarie.
In realtà, come Bellamy sottolinea, la questione dell’effettiva libertà di manovra dei cittadini all’interno dell’UE è un problema che continua ad avvitarsi su se stesso: la questione non si può porre nei termini di uno scontro fra democrazia e istituzione europea perché l’Europa stessa ha incarnato, costituzionalizzato persino, il meccanismo del mercato e della concorrenza, sul modello tedesco dell’ordoliberalismo. Questo ha aperto un ulteriore iato fra cittadini e istituzioni perché ha espunto de facto l’opzione di usare le istituzioni europee per fare da scudo alle dinamiche maggiormente sperequative della globalizzazione e farsene “scudo”. Nella sua riflessione dunque Bellamy, già non sospettabile di simpatie per le opzioni di dissoluzione dell’Unione, non predilige l’opzione federalista di costruzione dell’unione politica ma cerca di orientarsi verso una ridefinizione, in senso ampio e attraverso varie proposte, del meccanismo intergovernativo.
Lo fa attraverso un assunto forte che comporta l’inscindibilità delle decisioni pubbliche prese da un certo elettorato rispetto a quelle prese altrove: “Le decisioni democratiche di quasi tutti gli stati influenzano, e sono esse stesse influenzate da, le decisioni democratiche di altri stati, che siano formalmente associati all’interno di una struttura come quella dell’UE o no. Finché le decisioni prese democraticamente in uno Stato hanno ripercussioni su quelle degli altri stati, o riducono le opzioni disponibili per loro, mentre sono viceversa in parte determinate da questi altri stati, tutti gli stati rischiano di perdere la loro legittimità democratica” (Bellamy, 2017)
Al quale tuttavia si giustappone anche un assunto debole, che riguarda immediatamente i problemi che “gli Stati non possono risolvere da soli”. Infatti, se è vero che questioni come, ad esempio, il cambiamento climatico non possono essere affrontate efficacemente dall’implementazione di determinate policies da parte di un singolo stato o alcuni singoli, è altresì aperto il dibattito sul ruolo che i singoli o le comunità di stati hanno avuto nell’adozione dell’agenda neoliberista del Washington Consensus da parte di Governi politici democraticamente eletti (Mitchell, Fazi 2017), alcuni infatti sostengono che così come la globalizzazione di un certo segno è stata implementata con il contributo determinante degli stati, con lo stesso contributo può essere modificata o che alcune problematiche, seppur di carattere internazionale, necessitino di volontà politica a livello nazionale per essere affrontate. Quest’ultima ottica non sembra del tutto incompatibile con quella di Bellamy che infatti sostiene: “Ho proposto che si arrivasse al controllo attraverso una collaborazione fra democrazie europee, non creando una democrazia a livello dell’UE”.
Infatti, un effettivo potere decisionale dei cittadini non può che passare da un effettivo potere di controllo degli eletti, impossibile senza una stampa realmente libera e in presenza di un’estensione territoriale troppo vasta o di leggi elettorali mal concepite, passa dalla riaggregazione e dalla ricreazione di identità collettive nelle forme delle strutture politiche costituzionali (partiti, corpi intermedi, associazionismo ecc.).
La riforma proposta da Bellamy delle istituzioni europee, in questo senso, non è detto sia la soluzione alla perdita di fiducia di larga parte dei cittadini nella costruzione dell’Unione, ma può certo essere un modo interessante di porre il tema di come questi possano recuperare potere decisionale, combattendo allo stesso tempo i nazionalismi. Potrebbe avere anche un effetto più sfumato ma non secondario: proporre una via d’uscita dal dibattito fra euroscettici ed euroentusiasti, o quello fra populisti di destra ed élites politiche neoliberiste, che rischia, per tornare dove siamo partiti, di vedere un intero campo progressista sconfitto in partenza.