La corsa di M. Il figlio del secolo, il libro di Antonio Scurati da poco pubblicato per Bompiani, finisce con la recensione Di Ernesto Galli Della Loggia uscita giorni fa sul Corriere della Sera. Oppure, come sembra, potrebbe proseguire e continuare a far discutere. Il botta e risposta tra lo storico e il romanziere ha le caratteristiche di una discussione dal fiato corto, che non ci permette di crescere, è una prova di forza tra posizioni (politiche, culturali, mentali,…) che vogliono misurarsi. A suo modo è un derby. E forse è il caso che rimanga confinato sui campi di gioco.

Una delle cose che probabilmente resteranno della forma che ha preso questa discussione è, come si dice a Milano, «ofelè fa el to mesté» – traduco: «pasticcere, fai il tuo mestiere». Dunque, l’esortazione sarebbe quella che Antonio Scurati smetta di occuparsi di inquadramenti di storia e che torni a scrivere narrativa pura. I bei libri di storia sono lavoro da storici.

Vale per i molti errori, talvolta veri e propri strafalcioni, di cui è pieno il libro (ma mi chiedo: possibile che non ci sia stato un controllo affidato a uno storico di professione?). Deve essere chiaro che al netto degli errori il problema da porre è: di storia e del senso della narrazione della storia hanno diritti di parola solo gli storici? E su Mussolini, sul senso di quella storia italiana, sugli effetti soprattutto nel senso comune e nella sensibilità dell’opinione pubblica, hanno diritto di parola solo gli storici?

L’esortazione di Galli della Loggia avrebbe anche un senso, solo che da molti anni è evidente quanto il processo di costruzione dell’indagine storica e, in particolare, l’apertura di alcuni scavi nel passato non la facciano per primi, né esclusivamente, gli storici. Noi storici, ammesso che ne abbiamo voglia, veniamo sollecitati a ripensare lo scavo e l’indagine intorno a fatti di storia da parte di stimoli, provocazioni e interventi che avvengono al di fuori della disciplina storica.

Tra questi, il primo posto, si potrebbe dire, sta la letteratura. Non è forse vero che Il Dottor Zhivago ci ha costretto a rileggere la Rivoluzione d’Ottobre più dell’opera di E. H. Carr? O che Il Gattopardo ci ha raccontato il Risorgimento con più efficacia di Giorgio Candeloro o di Rosario Romeo? Quanta verità storica c’era e c’è in entrambi? Difficile dirlo.

Prendo ad esempio un fatto: l’analisi e lo scavo intorno alla personalità del terrorista contemporaneo. I testi di letteratura non contengono il vero ma è la letteratura e non la storiografia a contenere quel meccanismo che ci fa entrare nei sentimenti del terrorista, li riporta alla luce e li descrive. Basta pensare a Merry Levov, la protagonista adolescente di Pastorale americana di Philip Roth; Yazdi, il figlio deficiente del cantastorie arabo Khilmi ne Il sorriso dell’agnello di David Grossman; Lee Harvey Oswald di Don DeLillo in Libra; Nafa Walid, il protagonista di Cosa sognano i lupi di Yasmina Khadra. Hanno in comune il vuoto della vita quotidiana. Nel racconto del vissuto di quel vuoto prende corpo lentamente la forza di una scelta e di una reazione che si fa violenza e che adotta la distruzione come codice di comportamento.

Oppure: come raccontare Teheran oggi? C’è qualche storico che abbia saputo descrivere il vissuto di Teheran dall’interno più di Azar Nafisi in Leggere Lolita a Teheran o di Jafar Panahi in Taxi Teheran? E quelle due diverse creazioni in che modo indicano un percorso di scavo e di indagine possibile?

E ancora. Rimaniamo in Italia. Prima e dopo Vajont, 9 ottobre 1963. Orazione civile di Paolini in che forma abbiamo parlato del Vajont? Usciamo di nuovo dall’Italia. Cos’era la consapevolezza della Francia di Vichy nell’opinione pubblica della Francia prima del film Lacombe Lucien di Louis Malle girato nel 1974? Non sono stati i processi Papon e Touvier, ma un film e, in subordine, una produzione storiografica, che ha avuto poi bisogno di uno storico statunitense (Paxton,Vichy France: Old Guard and New Order, 1940-1944, 1972) e di uno storico franco-israeliano (Zeev Sternhel Ni droite, ni gauche. L’ideologie fasciste en France, 1983), perché quella discussione pubblica assumesse la dimensione di un confronto non più eludibile. Lo stesso si potrebbe dire della narrativa di Javier Cercas in Spagna con L’impostore, ma soprattutto con Anatomia di un istante.

Lo stesso, inoltre, si potrebbe dire a proposito della discussione pubblica e del confronto (non per tifoserie), sul fascismo in Italia e sulla Resistenza.

Certo tutti possono ricordare e fare i paragoni con la monumentale biografia di Mussolini stesa da Renzo De Felice; tuttavia, perché quei temi si ponessero all’attenzione pubblica, occorreva che venisse sollevato l’interesse ed è accorso, in questo senso, Sergio Zavoli con Nascita di una dittatura; perché la discussione sul terrorismo, sulle BR, sul rapimento Moro ottenesse una dovuto approfondimento Il memoriale della Repubblica di Miguel Gotor è stato indispensabile ma senza Sergio Zavoli non avremmo fatto grandi passi avanti nella coscienza pubblica. Così non è un caso che, nonostante il Giorno della Memoria e nonostante le pietre d’inciampo, alla fine solo con una trasmissione di Alberto Angela sul 16 ottobre 1943 quella questione è diventata questione.

Infine, solo con Una guerra civile di Claudio Pavone, si è aperta in Italia, finalmente, una discussione non solo sulla Resistenza ma, soprattutto, sulla legittimità di altre fonti rispetto a quelle presenti nell’Archivio Centrale dello Stato come: i diari privati, le lettere, i racconti, la narrativa, la filmografia. In breve, si è aperta la possibilità di utilizzare e ricorrere a tutte le fonti e a tutti i linguaggi contemporanei.

Considero ancora, a trent’anni di distanza Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza (1991) di Claudio Pavone (uno dei miei maestri) un testo fondamentale, per molti aspetti insuperato. E tuttavia, credo che quel libro non possa costituire il testo definitivo, soprattutto perché si ferma al 25 aprile 1945. Di quel libro, come progetto e contenuto, non solo è importante il titolo, ma anche, e per me soprattutto, il sottotitolo. Per questo ritenevo allora e ritengo tuttora che quel libro, così decisivo, dovesse spingersi oltre quella data. Quando cessarono gli spari, quella conflittualità proseguì, segnò molte vite e si innervò oltre il 1945 fino ai nostri giorni. Questa storia ancora deve essere raccontata con la stessa acribia, con la stessa capacità di saper leggere e usare le fonti, con la stessa voglia di scavo che c’è nel libro di Pavone, contro la facile narrativa di propaganda che va molto di moda da tempo e che ancora svetta nelle classifiche dei libri più venduti in Italia.

Dunque il tema è come si affronta con pacatezza e possibilmente senza tifoserie, ma con passione questa questione Il tema non riguarda come si scrive il vero, ma come si produce racconto e scavo nel passato in grado di riaprire la discussione sui luoghi comuni nel presente.

Non riguarda solo l’Italia, anzi dall’estero ci vengono molte suggestioni di lavoro.

Ne vogliamo parlare? Possibilmente senza tifoseria?

 

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