Mettersi in gioco e discutere di “innovazione democratica” significa, prima di tutto, interrogarsi sul significato di tale espressione, sulla sua portata e sulle sue conseguenze. La parola “innovazione” è una di quelle che vanno di moda e che rappresentano a volte un anelito a complicate trasformazioni ma più spesso comode e tranquillizzanti semplificazioni. Non è un caso che la retorica sull’innovazione costituisca una delle narrazioni che hanno accompagnato quei processi di de-politicizzazione così funzionali all’affermazione del neo-liberismo. Parlare di innovazione democratica, però, costringe a ri-politicizzare l’innovazione e a declinarla in termini, principalmente, di partecipazione. L’innovazione democratica – al di là delle definizioni che ne sono state date – è una necessità sociale, un tentativo di risposta al deficit di rilevanza che costituisce al tempo stesso causa ed effetto della crisi della rappresentanza.
Questo non significa che l’innovazione democratica sfugga automaticamente al rischio della sua stessa anestetizzazione dentro le logiche della depoliticizzazione; ne rappresenta una prova evidente l’enfasi che viene posta sulla governance – a detrimento delle azioni di government – anche da molti degli stessi protagonisti di esperienze (anche significative) di sperimentazione o di innovazione democratica. Tuttavia, parlare di innovazione democratica costringe – nel più banale dei casi – a riflettere sulle forme di ristrutturazione istituzionale della partecipazione politica e dei processi di decision making; spesso significa anche ridefinire le forme della partecipazione “dal basso”, riflettere sul ruolo dei movimenti sociali e delle associazioni di cittadinanza attiva, creare un ponte fra l’impegno civico sul territorio e le possibilità offerte dalle piattaforme democratiche online, e finanche ipotizzare nuove forme di relazione fra gli istituti della democrazia rappresentativa e le sperimentazioni di democrazia partecipativa e deliberativa.
E poco importa che dentro la cornice dell’innovazione democratica possano trovare spazio (talvolta con qualche forzatura, a dire il vero) esperienze fra loro molto diversificate: dai bilanci partecipativi alle leggi sulla partecipazione, dal dibattito pubblico ai mini-pubblici, dalle giurie di cittadini sul territorio alle piattaforme di partecipazione attraverso la rete, dal civismo alle esperienze di governo collaborativo urbano, dalle assemblee deliberative alle forme più partecipative di open government, dalle reti civiche alla collaborazione fra movimenti, terzo settore e istituzioni, e l’elenco potrebbe continuare. In realtà, proprio tale ricchezza di esperienze dimostra la vivacità culturale, il valore scientifico e, soprattutto, la necessità sociale dell’innovazione democratica.
La vivacità scientifica è, peraltro, ampiamente evidenziata dalla ricchezza della letteratura accademica sul tema (e sui diversi sub-temi) dell’innovazione democratica. E se non è un caso che le forme di innovazione democratica siano state spesse confinate in quello che viene definito institutional re-shaping, è pure vero che proprio la necessità di ripensare il ruolo delle istituzioni ha offerto nuove opportunità di protagonismo alle cittadine e ai cittadini. L’innovazione democratica, in altre parole, è stata spesso usata da politici e amministratori come una via d’uscita facile verso forme di governance poco impegnative e basate su una retorica della partecipazione senza reale coinvolgimento popolare; ma al tempo stesso, essa ha rappresentato uno straordinario volano di crescita della partecipazione e del civic engagement, nonché della presa di coscienza che è possibile uscire dall’irrilevanza sociale. Da questa prospettiva, allora, attivare un dibattito sulle teorie e le pratiche dell’innovazione democratica significa, in definitiva, provare davvero a democratizzare la democrazia.