Cosa è la performing art e perché il nostro tempo ne vede una insistente diffusione, sia nei circuiti artistici più di frontiera che nelle stagioni dei grandi teatri pubblici?
Forse per capirlo bisogna partire dalla società, perché ogni forma di arte in un dato tempo storico è contemporanea a chi vive quel tempo, e ne esprime la necessità di rappresentazione ed autorappresentazione.
Un’espressione molto accettata per la definizione della nostra società sta forse nell’aggettivo “liquido” con cui il filosofo Zygmunt Bauman ha etichettato la vita, le relazioni di oggi, robustamente influenzate dall’introduzione della comunicazione digitale, quella dei messaggi veloci, delle chat che si autodistruggono, quelle in cui dominano le immagini, i meme, gli emoticon: un mondo fatto di icone, in cui la parola scritta tende a sparire, generando fenomeni di analfabetismo di massa.
Anche la parola ascoltata (e quella parlata, di conseguenza) si schiaccia su una brevità di argomenti che va di pari passo con la durata dei micro video da caricare online.
È dunque un fatto che questa società sempre meno si riconosca nel teatro di parola, lungo, verboso, Otto-Novecentesco, ma anche quello shakespeariano, e indietro indietro fino al teatro classico greco.
Cresce invece in modo significativo l’attenzione verso manifestazioni di derivazione forse più dionisiaca, per rifarci ai principi nietzschiani della Nascita della tragedia, che chiamiamo adesso performative (la performing art): un codice in realtà mai sparito e presente nei riti carnevaleschi, ad esempio, di liberazione dell’istinto, delle energie profonde, delle paure e delle angosce, tramite riti creativi.
Fonte: Aterballetto – ©Gabriele Lichelli
L’arte performativa, rimedio alle paure dell’oggi
Già nella seconda metà del secolo scorso, la Performing art – dai rituali anche sanguinolenti di Hermann Nitsch, alle sfide dell’espressività estrema del corpo di Marina Abramovich, Vito Acconci, Gina Pane, passando per gli happening di rottura con la convenzione sociale del Living theatre e di molta parte del linguaggio iniziale di Kantor – ha raccontato a suo modo il progressivo distacco dall’ambito religioso, a vantaggio dell’ultimo rito possibile rimasto, quello creativo, appunto. Il tema della nudità degli esseri viventi, dell’emancipazione della donna, la protesta sociale, l’isolamento, le voci, i confini, la spiritualità laica contro l’imbarbarimento collettivo: ecco alcuni dei temi con cui questi artisti si sono confrontati, fissando negli occhi per interminabili minuti il partecipante alla performance o mettendogli in mano una pistola carica, come ha fatto la Abramovic.
“This is my church, This is where I heal my hurts” (Questa è la mia chiesa, qui è dove guarisco le mie ferite), recita il testo di una delle più celebri tracce di musica techno con cui il secolo scorso ci ha passato il testimone, parlando del rito della danza nella cultura underground, in un brano del gruppo di musica elettronica Faithless, non a caso intitolato God is a DJ, del 1998.
Questo succedeva appunto a fine secolo scorso. Ma oggi?
Nel nostro presente “liquido” la divinità religiosa pare esser superata insieme alle ideologie dei due secoli passati. Come si fa ad andare oltre la paura della morte ora che il disincanto, la scienza rendono poco credibile il racconto dell’aldilà? In cosa sperare?
Sempre secondo Bauman nella cultura contemporanea ci sono due diverse strategie messe in atto dalla mente umana per fronteggiare la morte: la decostruzione della mortalità e la decostruzione dell’immortalità.
In base al primo principio l’attenzione viene costantemente spostata dalla morte alle sue cause, che sono sempre contingenti, evitabili, razionalmente gestibili.
In base al secondo, invece, il domani non si distingue dall’oggi e la promessa della vita eterna si raggiunge qui in terra, in una serie di gratificazioni anticipate e soddisfazioni quotidiane, effimere, sempre a portata di mano.
In entrambi i casi, a prendere la scena è una dissacrazione della vita, in cui non avviene più nulla.
Quasi ad esorcizzare questo nulla, nel suo dialogo con l’arte dal vivo per eccellenza – ovvero lo spettacolo, il teatro (e la questione dell’essere dal vivo non appaia marginale in questo) – il cittadino non si accontenta più di stare in poltrona e respirare l’atmosfera introspettivo-decadente che da Pirandello a Kantor per tutto il Novecento gli artisti hanno fatto respirare in sala; si aggrappa all’arte dal vivo nel tentativo di resistere a quella morte che, come nei quadri di Ensor, progressivamente si legge sui volti di tutti.
Ma non si tratta solo di riconoscere nell’arte un anelito, un soffio di quell’immortalità, che il nostro tempo comunque ricerca.
In un tempo di solitudini, precarietà e impotenza collettiva, l’arte partecipata – performativa, in particolare – è una delle manifestazioni che a livello planetario pare unire uomini, pensieri, muovere persone in pellegrinaggi quasi religiosi. Ci sono performances partecipate da decine e decine di migliaia, in alcuni casi milioni di persone, alla ricerca di questo senso di assolutezza che solo l’arte oggi continua a suggerire.
Forse i pensieri dell’arte e del divino si estingueranno assieme all’essere umano, forse per mano delle macchine, come sostengono alcuni futurologi, entro i prossimi duecento anni.
Nel frattempo, nella speranza di immaginarci o renderci immortali con la biomedicina, l’arte performativa ci viene in soccorso, ci fa sentire un po’ immortali, raccogliendo le paure e riconsegnandocele sotto forma di simboli e desideri.
Su questi temi, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli promuove Voices&Borders, festival multiculturale di danza, musica e immagini: cinque giorni di laboratori gratuiti con artisti di calibro internazionale e spettacoli serali di musica, danza e arti visive.
Diversità, acqua, città, democrazia e ribellione sono i cinque temi contemporanei affrontati e interpretati rispettivamente da cinque artisti, attraverso linguaggi differenti, tra loro spesso confinanti e comunicanti.
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