Il lavoro conta in un Paese che ha tassi di disoccupazione giovanile pari al 31,5%? In un Paese in cui la quota di inattivi, ovvero di coloro che sono disoccupati e non cercano lavoro, resta a livelli record (11,4%)? In un Paese in cui i lavoratori poveri – coloro che sono a rischio povertà nonostante percepiscano un reddito da lavoro – sono l’11,7% della forza lavoro?
I dati – ma anche le storie, i vissuti e le parole: sempre più spesso sentiamo parlare di lavoretti, mini-jobs, lavoro low-cost e on demand – ci dicono che diviene più labile e problematico il rapporto fra lavoro e cittadinanza. Non si tratta solo del lavoro che non c’è, della disoccupazione indotta dalla competizione globale e dai processi di automazione. Si tratta, più in generale, di una trasformazione del lavoro che rende sempre più difficile che il lavoro costituisca un ambito primario di autonomia e realizzazione di sé, una forma di protezione contro l’insicurezza, uno strumento attraverso cui accedere a servizi e tutele sociali, un veicolo di partecipazione alla vita – anche politica e democratica – della comunità.
Nel corso degli ultimi anni stiamo infatti assistendo a un progressivo e generalizzato aumento dell’incertezza e dell’insicurezza sociale riguardo alle condizioni di vita e di lavoro. L’instabilità, la fluidità e l’eterogeneità delle carriere lavorative non interessano solo le fasce sociali considerate tradizionalmente deboli e già a rischio di esclusione sociale, ma anche una parte significativa di soggetti con competenze professionali medie e elevate. Studi recenti mostrano fenomeni di deriva verso forme di lavoro precario e marginale, associate a insicurezza economica e progressiva perdita di diritti. Sono sempre più numerosi i lavoratori la cui integrazione lavorativa non garantisce il pieno godimento delle tradizionali forme di protezione e rappresentanza sociale, incrementando il numero dei casi in cui il lavoro non esclude l’esposizione a forme di povertà.
Dire, in questo contesto, che il lavoro conta significa introdurre una prospettiva che tenta di offrire un argine al suo impoverimento. Una prospettiva che afferma almeno quattro principi: 1) che il lavoro costituisce la principale fonte di reddito, permettendo l’accesso al consumo di risorse necessarie alla sopravvivenza, ma anche al raggiungimento di una vita libera e dignitosa; 2) che il lavoro è anche fonte di autorealizzazione e di confidenza in se stessi, in parte indipendentemente dal livello del reddito; 3) che il lavoro, allo stesso tempo, è espressione della propria identità sociale e terreno di costruzione di reti di relazione che favoriscono lo scambio, la prossimità, l’attivazione di legami di senso e di solidarietà; 4) che è proprio attraverso il lavoro che gli individui accedono ai diritti sociali, alla protezione pubblica e privata di welfare, a forme di rappresentanza e partecipazione associativa e politica.
Quattro ambiti diversi e pure ugualmente investiti dall’attuale trasformazione del lavoro: i nuovi lavori o l’esclusione del lavoro, infatti, aprono vertenze su tutti e quattro i fronti. I gradi di vulnerabilità sociale che ne discendono assumono diverse connotazioni: può trattarsi di povertà economica e materiale: bassa occupazione e bassi redditi, stipendi inadeguati ai bisogni familiari; ma un’integrazione fragile e intermittente nel mercato del lavoro produce effetti anche sul piano della costruzione di sé e del proprio progetto di vita, punteggiato di transizioni ed incertezze; la frammentazione, l’intermittenza e l’individualizzazione dei percorsi lavorativi può anche tradursi in solitudine, senso di isolamento, percezione di invisibilità.
E non essere visti vuole dire perdere quell’occasione primaria che fonda il rapporto con l’altro, la matrice del riconoscimento e della vita in comune. La polis, scriveva Hannah Arendt, “è l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e parlare insieme (…). È lo spazio dell’apparire, nel più vasto senso della parola: lo spazio dove appaio agli altri come gli altri appaiono a me”. Scivolando ai margini di quello spazio di reciproca e pubblica apparizione si rischia così di perdere terreno, prerogative, capacità di rappresentanza anche sul piano dell’azione politica.
Se il lavoro conta, non si possono contrastare gli effetti negativi della trasformazione del lavoro solamente attraverso la compensazione del deficit di reddito con forme di redistribuzione delle risorse (sussidi) o del lavoro (“lavorare meno, lavorare tutti”). Si devono anche trovare modalità di diffusione della conoscenza e della professionalità che consentano a tutti opportunità di realizzarsi e di (re)inserirsi in contesti lavorativi complessi e dinamici; e sviluppare contestualmente protezioni universalistiche e partecipate all’interno di processi di crescita socialmente sostenibili, fondati su nuove modalità di cooperazione e di qualità sociale e ambientale.
Agire in questo senso vorrebbe dire riassegnare – con il concorso di tutti gli attori coinvolti: le imprese, le parti sociali, la politica – una nuova centralità al lavoro, inteso come fattore di sviluppo e insieme come terreno di emancipazione individuale e coesione comunitaria.