Periferìa, dal greco «portare intorno, girare», è la linea curva che tornando su se stessa racchiude un’area, la «circonferenza» che delimita lo spazio abitato. Come sempre le etimologie rammentano i significati originari delle parole, aiutandoci a recuperarli. Quella del termine periferia ne esprime il carattere generativo, non ambito escluso e separato, ma in relazione stretta e produttiva con il centro. In questo senso, la periferia definisce la città, non ne resta fuori.
Lo sviluppo urbanistico delle periferie italiane si inscrive in un fuori temporale, all’interno di un carattere di “provvisorietà” fintanto che anche la periferia divenga città consolidata. Quello che accade nel frattempo, però, è vita, e richiama un riconoscimento.
Il recente Piano periferie, sorprendentemente, risponde. Il “Bando per la presentazione di progetti per la predisposizione del Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia” sblocca la quota sinora più consistente di risorse statali messa a disposizione dallo Stato per programmi urbani “complessi”. Elemento distintivo dei ventiquattro progetti promossi è l’incorporazione del concetto di rigenerazione urbana nella sua formulazione più integrata, una prospettiva di disegno e governo delle trasformazioni urbane che tiene conto della progettazione edilizia e degli spazi, come dell’inclusione sociale e del welfare “culturale”. Periferie non più come ricettacolo di popolazioni stipate nell’edilizia massiva dei primi anni ’70, né superfetazioni dell’organismo urbano ove la garanzia di mantenimento di soglie minime di qualità della convivenza civica vengono poi delegate all’intraprendenza o capacità di risposta di soggetti privati e del terzo settore.
Per diverse ragioni il Piano periferie segna uno scarto rispetto ai venticinque anni di vuoto politico e programmatico nazionale in materia di città: anzitutto perché risarcisce di un tardivo, ma indispensabile riconoscimento il microcosmo trascurato, quanto affollato di pratiche di resilienza, autorganizzazione e innovazione in corso di sperimentazione da decenni; in secondo luogo, perché applica – seppur anche qui con ritardo rispetto al più avanzato percorso scientifico-disciplinare – un approccio integrato alla riqualificazione dei luoghi urbani e una visione di città polifunzionale e policentrica che ripensi il sistema dei servizi di welfare attraverso una pluralità di soggetti; infine, perché coglie l’occasione per immaginare e affermare la dimensione metropolitana proprio a partire da aree marginali che nella città espansa del futuro saranno probabilmente nuove centralità o ambiti perfettamente integrati al tessuto urbano e su cui a maggior ragione conviene riflettere e scommettere oggi.
Come detto, le periferie sono generative, di nuove domande (di soddisfacimento di bisogni abitativi e diritto alla città) come di risposte, e il Piano periferie sembra finalmente riconoscerlo. Non fa altrettanto la vulgata giornalistica che continua a fornire immagini semplificanti della complessità che le periferie invece sono. A colpire, al di là delle retoriche più banali che cavalcano l’idea populista delle periferie come luoghi di degrado da mettere in sicurezza, è la riproduzione narrativa di un’alterità monolitica e distinta di questi contesti, quando le vite che le abitano e le attraversano – dal mix di vecchi e nuovi migranti là insediati in ragione di maggiore accessibilità al mercato immobiliare, ai lavoratori pendolari che vi si recano quotidianamente, fino alle popolazioni notturne e underground che le frequentano – non fanno che tracciare e rintracciare una trama di fili che li legano al resto della città. Queste vite, espressione dei caleidoscopi di mondi presenti e futuri proiettati dalle periferie, sono sostanzialmente assenti nella narrazione prevalente. E non è solo una mancanza di per sé. È una perdita per tutti, proprio perché le periferie sono parte della città, chi le abita corpi e immaginari in transito, e l’urbano sempre più, necessariamente, la frontiera a partire dalla quale pensare nuove istanze etiche. Per farlo, occorre prestare ascolto (ancor più che dare voce) a soggetti solitamente trascurati e provare a costruire con loro un vocabolario di parole di senso comune e condiviso. Profili marginali, più per classe e segregazione subita che per collocazione e azioni praticate, e giovani, specialmente, che per indifferenza o paternalismo si continua ad ignorare, come se non fossero corpi agenti, pensanti, desideranti, portatori consapevoli di un progetto di futuro.
È proprio da questi soggetti che l’Osservatorio sulle trasformazioni urbane dell’area di ricerca Città e Cittadinanza decide di partire per avviare un percorso progettuale multidisciplinare di video-inchiesta sulle periferie, raccontate, osservate, scoperte e immaginate specialmente dai più giovani accomunati dall’esperienza migrante. L’Adolescenza delle città riconosce nei contesti marginali il luogo di tensioni e sperimentalismo in cui lavorare per condurre le nostre città verso un’età più matura. Lavorare con i giovani significa non soltanto riconoscere valore alla stagione di impeto, coraggio, sperimentazione della loro età, ma anche stabilire un patto di collaborazione e mutua responsabilizzazione per rigenerare insieme i luoghi di vita della città. Il progetto si focalizzerà su Milano, contaminandosi fertilmente di esperienze di soggetti provenienti da altre periferie raccolte e raccontate anche dal filone editoriale inaugurato da questo contributo.
Si apre così un percorso di confronto tra contesti periferici diversi, che intende fare il punto su alcune parole chiave, temi e casi alla scala nazionale per restituire comparativamente un quadro delle pratiche di resistenza e forme di disperazione creativa dei/dai margini. Non solo Milano, ma anche Napoli, Roma, Bari, Bologna, Padova, saranno l’occasione per parlare di periferia in relazione a beni comuni, innovazione sociale, rigenerazione e servizi attraverso le voce di chi da anni prova a praticare alternative possibili. Non più periferie come esterni esclusi da cui fuggire, ma luoghi da attraversare, in cui girare per definire le condizioni di vita delle nostre città, fotografarne alla giusta distanza fragilità, difficoltà e povertà emotive, come anche le forme di capitale sociale, umano, spaziale che racchiudono, traguardare da essi l’avvenire e provare a ripartire insieme.