North Carolina University
Università degli Studi di Urbino

di ANDREW SMOLSKI, Comparso su Jacobin – 29 Marzo 2017

 

(traduzione e riadattamento di Rosa Fioravante)

 

A scala globale, vengono prodotte mediamente oltre duemila kilocalorie (kcal) a persona, che è il livello minimo di energia richiesta dagli umani secondo le linee guida nutrizionali USDA. Ciò nonostante, 780 milioni di persone vivono in condizioni di fame cronica, in parte, secondo le Nazioni Unite, a causa dello spreco di cibo. La FAO non offre una spiegazione sociale sul perché lo spreco di cibo si verifichi. Invece, cerca soluzioni tecnologiche o basate sul mercato. Di base, questo significa indagare su come prendere le misure più idonee rispetto al problema dello spreco, trovare tecniche migliori di raccolta, aumentare gli incentivi e prendere altri accorgimenti. Queste soluzioni lasciano intatta la motivazione di fondo che sostiene il nostro sistema alimentare e l’ovvia concentrazione oligopolistica di potere sulla catena di merci, rendendo tutti dipendenti, per il loro sostentamento, da grosse aziende non soggette ad alcun tipo di controllo. Il tema dello spreco alimentare viene quindi affrontato dal punto di vista dell’efficienza economica, mai da quello dell’equità. La tecnologia può risolvere molte questioni connesse all’agricoltura, ma non affronta il perché i produttori decidano di lasciare il cibo nei campi invece che portarlo sul mercato, o il perché i distributori lo getterebbero invece che distribuirlo a coloro che ne hanno bisogno. Entrambi questi dati sfuggono dalla comprensione umana posto che il fine ultimo di produrre cibo sia quello di nutrire le persone. Ma questo non è il fine della produzione capitalista di cibo che è animata da un’insaziabile brama di profitto e accumulazione.

Food for All! 2017. Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

 

Una merce è prodotta per il suo valore di scambio – il prezzo. Un capitalista usa il denaro per produrre merce da vendere per avere più denaro. In questa semplice catena, sorgono numerose ragioni economiche perché i coltivatori non raccolgano tutto quello che coltivano. Il cibo che non è mercificabile non ha valore per il capitalista, nonostante il suo valore biologico per le persone affamate. Quando il prezzo fluttua nel corso della stagione di crescita, i coltivatori raccolgono meno grano. All’inizio della stagione, il prezzo per frutta e verdura è maggiore che alla fine. Quindi mentre la stagione prosegue, il cibo che non conviene sia venduto è lasciato nei campi. I coltivatori non mandano un camion di verdure ai distributori se rischia di tornare indietro perché i prodotti non raggiungono i loro standard estetici. Emerge sempre più chiaramente come gli attuali incentivi di mercato portino all’aumento della produzione di cibo “spazzatura”. Quindi, tutto sommato, non stiamo sfamando gli affamati, non stiamo coltivando cibo nutriente, ma stiamo aumentando il valore aggiunto, rendendo così il cibo una buona merce. Quindi il cibo è trattato come una merce, e nel momento in cui non ha più valore di scambio, diventa spreco. In quel caso, diventa quello che Barnard chiama una ex-merce [ex-commodity]. Il cibo può essere per scambio o per uso. Se il nostro fine fosse nutrire le persone in opposizione al profitto, cosa comporterebbe? In fondo, vorrebbe dire trasformare il cibo da merce a diritto.

Sono cresciuti diversi movimenti che si occupano dello spreco di cibo e sviluppano l’ideale del cibo come diritto. Ad esempio Gleaning, Community of the Franciscan Way farm house nel North Carolina, Freeganism, Food Not Bombs, ecc. Tutte queste azioni sono molto significative, e mantengono un baluardo contro un sistema assurdo. Ma, mentre questi modelli offrono spazi per aiuto reciproco e per dimostrare la fondamentale distorsione del sistema, non creano alternative di lungo periodo.

Al momento, il movimento per la sovranità alimentare, guidato da La Via Campesina e altre organizzazioni, propone di integrare le idee di aiuto reciproco e autonomia con lo sviluppo di modelli alternativi di produzione capaci di soppiantare il sistema alimentare capitalista attuale. Tutto sommato, la maggiore divergenza negli approcci strategici nell’affrontare la fame non è fra queste strategie anarchiche e altri programmi socialisti e di sovranità. Il divario principale è fra i liberal di sinistra, che si aggrappano all’idea sbagliata che il sistema possa essere riformato, e radicali, che insistono che non possa.

Pur non essendo affatto un modello perfetto, l’implementazione di un programma di sovranità alimentare a Cuba mostra alcune possibilità. Fabbriche, scuole, ospedali ed altre istituzioni-chiave ora posseggono i loro giardini, capaci di rifornire le loro mense. Altre terre precedentemente in usufrutto sono state cooperativizzate e sono stati attribuiti piccoli appezzamenti di proprietà. Tutto questo è stato coordinato insieme ad un gruppo di scienziati di diverse discipline che hanno lavorato attraverso un processo di partecipazione che connette la conoscenza scientifica moderna alla conoscenza tradizionale cultural-ecologica.

Un altro esempio è a Basilea, Svizzera, sede di un bell’esperimento di solidarietà urbana economica e sociale. Lì la Social Economy Basel ha costituito una autorità locale con la sua moneta e il suo credito capace di sostenere l’economia locale.

Possiamo trasferire gli imperativi di produzione e di innovazione tecnologica in agricoltura verso una logica di nutrizione delle persone invece che di profitto. Facendolo, possiamo correggere la principale causa di spreco alimentare. La fame non è inevitabile; è una scelta. Possiamo scegliere di eliminarla.

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