Università di Pisa

In preparazione della seconda conferenza dell’Associazione Italiana di Public History, che prenderà luogo a Pisa dal 11 al 15 giugno 2018 e che vedrà la partecipazione di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, si è svolto un seminario, promosso dal Dottorato di Scienze Politiche e del Laboratorio di Cultura Digitake dell’Università di Pisa, dal titolo “IN&OUT. Il posto della Public History nell’Università”.

Il seminario è stata l’occasione per interrogarsi sullo stato dalla Public History in Italia, a quasi un anno dalla nascita dell’Associazione Italiana Public History.

L’opera di passaggio è stata avvertita come necessaria per due ordini di ragioni: il primo è che la Public History è ancora poco conosciuta nelle accademie italiane, essendo ancora giovane l’associazione che la promuove (AIPH Associazione italiana di public history). La disciplina, praticata ampiamente nel Nord America e in Australia è da poco sbarcata in Europa, grazie soprattutto all’impegno di Serge Noiret prima come membro del NCPH (National Council   on Public History ncph.org) e poi come presidente dell’ICPH (The International Federation for Public History) Il collegamento tutto italiano tra gli storici eropei e quello che, nel campo, si stava muovendo oltre oceano ha consentito di organizzare la prima conferenza nazionale di Ravenna (giugno 2017) dove è nata ufficialmente l’associazione italiana e dove per la prima volta numerosi “operatori di storia” a diversi livelli si sono incontrati e confrontati.  Nonostante la conferenza sia stata molto partecipata, il campo d’azione del public historian è ancora tutto da definire, sia dentro che fuori l’università: da qui il titolo che abbiamo scelto, IN&OUT.

Conferenza AIPH, Ravenna 2017

Il secondo ordine di ragioni è da riconoscere nel fatto che anche i dottorandi e docenti interessati alla PH si stanno chiedendo quale possa essere il rapporto tra chi la pratica, spesso fuori dalle università, e i centri che formano gli storici o comunque le persone specializzate in discipline correlate alla storia.

Il fine degli organizzatori del seminario era quello di cercare di rispondere a questi dubbi e anche di ragionare su come potrebbe declinarsi il rapporto tra Università e PH dal punto di vista della ricerca, della didattica e del lavoro sul campo.

Si tratta di un ambito di discussione che si trova allo stadio ancora iniziale entro l’accademia. Fino ad ora le iniziative che sono state prese, ad eccezione dei master in PH di UNIMORE e di quello appena inaugurato di UNIMI in collaborazione alla Fondazione Feltrinelli, sono di carattere episodico e legate agli interessi del singolo docente. Esistono corsi singoli di PH all’interno di vari corsi di studio di ambito umanistico (Pisa, Salerno, Macerata), sono stati aperti “laboratori” di appoggio ad altri corsi (Cagliari), ma nessuna discussione fino ad ora è stata avviata a livello nazionale per un possibile inserimento ufficiale della disciplina nel piano formativo dello storico.

Su questi temi ci si è quindi interrogati nella prima parte del seminario, dove alcuni dei maggiori esponenti della PH in Italia, moderati da Elena Dundovich (coordinatrice del Dottorato di Ricerca in Scienze Politiche) hanno affrontato i diversi punti nodali della questione: Serge Noiret (presidente AIPH) ha allargato lo sguardo alla Public History Internazionale; Valeria Galimi (UNIMI) ha invece parlato del Master in Public History promosso dall’Università degli studi di Milano e della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli; Marcello Ravveduto (UNISA) ha dedicato il suo interventi ai metodi da lui applicati nell’insegnare PH in un corso triennale di Comunicazione; sempre alla didattica ha prestato attenzione Sabina Pavone (UNIMC), che sta costruinedo un corso di PH in un percorso di Beni culturali e del turismo.

Il quadro che è emerso da questi interventi rispecchia da un lato la situazione ancora acerba e immatura che la PH come disciplina sta vivendo nelle università, dovuta anche al fatto che il sistema formativo universitario è molto rigido e non favorisce la proposizione e l’allestimento di nuovi percorsi. Non c’è stato purtroppo tempo, alla fine della mattinata, per discutere le diverse relazioni, ma il tema è risultato vivo e interessante: è certamente il caso che l’AIPH lo metta tra le questioni nodali da affrontare non solo a Pisa a giugno (dove una tavola rotonda sulla formazione del public historian è comunque prevista), ma prorpio nelle attività istituzionali dell’associazione nel cercare un dialogo con il MiBACT e il MIUR.

 

Conferenza AIPH, Ravenna 2017 – Assemblea

Hanno invece trattato di due esperienze peculiari di PH in relazione alla ricerca, Paolo Pezzino (Rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea), e Fabio Dei (UNIPI). Il primo ha raccontato la sua esperienza personale di storico contemporaneista consultato da una comunità toscana colpita da una strage nazista nel 1945 e ancora divisa al suo interno sulla lettura storica della strage (eccidio di Guardistallo). Fabio Dei ha trattato invece delle rievocazioni storiche viste dal punto di vista degli studi, a seguito di un progetto di ricerca da lui coordinato.

In entrambi i casi è stata sottolineata la grande utilità per lo studioso di storia di interagire col territorio a diversi livelli, ma anche le difficoltà che inevitabilmente emergono di ordine scientifico, epistemologico e morale, con la conseguente necessità di elaborare un manifesto / codice etico del public historian. Anche questo, mi sembra opportuno sottolinearlo, è un tema caldo all’interno della AIPH.

Nella seconda parte del seminario è stata data la parola ad alcune esperienze operative di PH. Enrica Salvatori (UNIPI) ha esaminato in maniera trasversale alcune pratiche di PH che sono state esaminate a seguito di un sondaggio in rete tra i soci dell’AIPH. L’analisi è stata condotta nel corso di Storia Pubblica Digitale di Informatica Umanistcia Magistrale dell’Università di Pisa. Eugenia Corbino e Francesca Capetta di Pop History hanno presentato la loro iniziativa e così hanno fatto Domenico Matteo Frisone e Michele Lacriola per Pinte di storia e Domizia Weber per Ereticopedia.

Si tratta di iniziative molto diverse fra loro: PopHistory promuove progetti di PH con privati, istituzioni e associazioni; Pinte di Storia gestisce un canale youtube con brevi video dedicati alla storia e registrati in un bar; Ereticopedia è invece un’iniziativa editoriale complessa fondata sul lavoro collaborativo. Tutti e tre i casi hanno tuttavia dimostrato che il campo d’azione della PH è vasto e potenzialmente fecondo.

L’analisi condotta tra le migliori pratiche ha mostrato, d’altro canto, l’estrema varietà delle esperienze di PH in Italia: segno buono, certamente, ma anche indice di un contesto in cui c’è molto da lavorare per definire alcuni standard minimi di qualità da richiedere a chi si propone come public historian.

Il pomeriggio ha visto una discreta partecipazione attiva del pubblico, che ha posto diverse domande a chi è impegnato attivamente a fare storia fuori dalle aule. Non è sempre facile per i dottorandi di ambito storico – la componente maggioritaria del pubblico – comprendere come declinare sul pratico le propre ricerche. Pesa, su questa difficoltà, l’impostazione tradizionale della ricerca storica, sovente estremamente specialistica nei temi e nei linguaggi; un ruolo non piccolo ha poi l’atteggiamento verso il pubblico del corpo docente italiano, più che disponibile, mediamente, alla divulgazione, ma meno attento o interessato a forme più operative di inserimento dello storico nella società.

Si può dire che alla fine del seminario la PH è risultata IN nella misura in cui di essa se ne è discusso proprio in un’aula magna universitaria e OUT perché ancora lontana, nella pratica, dal lavoro che si conduce quotidianamente negli atenei.

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